«Fumare è peccato?»: questo è il titolo di una serie, di cui ho ricevuto
solo le ultime due puntate. La sua tesi è che lo è sempre e in ogni caso.
Per verità di cronaca, all’inizio del Risveglio non era inusuale in Toscana
vedere che alcuni fratelli, dopo il culto uscissero fuori della sala di culto e,
parlando insieme, s’accendessero un Toscanino. Non è inusuale all’estero vedere
anche conduttori di chiesa e pastori che fumano la pipa. Non dico questo per
fare un’apologia del «fumo», ma per mostrare che in molte di queste cose gioca
un forte ruolo la percezione culturale. Può essere che alcuni, facendo una
campagna contro il «fumo», stigmatizzato a «peccato», coprano così le loro
altre
debolezze?
Ma allora, mi si dirà, sei d’accordo col «fumo»? No, io personalmente sono
contrario; ma non per chiare motivazioni esegetiche! A me sembra però che
l’autore di tali articoli (Warren) parta dalla tesi che il «fumo» sia «peccato»
e basta e cerchi versetti per accreditarla. Il peccato è l’infrazione chiara di
una legge (1 Gv 3,4): dove si trova tale inoppugnabile e incontrovertibile
prescrizione nella Bibbia? Dove non c’è una chiara prescrizione, bisogna
distinguere fra una corretta esegesi e argomentazioni secondarie, basate sul
buon senso, sulla ricerca scientifica e medica o altro. Ma ciò non risolve in
modo definitivo e rigoroso un argomento. Infatti, ciò è mostrato dal fatto che,
pur partendo dalle stesse premesse, su temi etici si può arrivare a risultati
differenti; e ognuno reclamerà la correttezza «biblica» e razionale della
propria posizione. Spesso il metodo usato da alcuni in tali temi è la
«versettologia», ossia l'accumulo di versetti presi fuori contesto; ma ciò non è
una buona soluzione a problemi di cui la Bibbia non ci dà una diretta e chiara
soluzione. Come affrontare problemi del genere in modo esegeticamente e
razionalmente corretto? Affrontando questo tema così controverso, vogliamo
metterci alla ricerca di un'«etica della libertà e della responsabilità».
Sulla questione rimando anche al libro:
Nicola Martella (a cura di),
Uniti nella verità, come affrontare le diversità
(Punto°A°Croce, Roma 2001), specialmente agli articoli:
«Quando nessuno ha ragione» (di Marvin Oxenham), pp. 77-81; «Il bianco, il nero
e il grigio» (di N. Martella), pp. 82-91; «Verità che ci uniscono, questioni che
ci differenziano» (Rinaldo Diprose), pp. 92ss.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Tonino Mele} ▲
Riguardo al fumo, capisco la tua levata di scudi e in parte la condivido, perché
anch’io credo che debba esser netta la linea di demarcazione tra ciò che è
peccato e ciò che non lo è, per non cadere nel pericolo di «fare di tutta l’erba
un fascio», finendo per «aggiungere» (Dt 4,2; Ap 22,18), per confondere e
annullare la Parola di Dio (Mc 7,8-13). Tuttavia, nel caso del fumo credo che tu
sbagli nel metterlo completamente fuori dal raggio di applicazione delle
prescrizioni divine. Se tu stai cercando nella Bibbia una «prescrizione
inoppugnabile e incontrovertibile» del tipo «vietato fumare», è chiaro che non
esiste. E forse Warren si spinge troppo su questo versante della questione,
dicendo quello che nella Bibbia non è così espressamente affermato. Tuttavia mi
pare che tu cada troppo nel versante opposto, almeno a giudicare dalle poche
righe che mi hai scritto, tirando fuori il «problema fumo» dalla sfera di
applicazione di una «corretta esegesi» per posizionarlo nel versante delle
«argomentazioni secondarie, basate sul buon senso, sulla ricerca o altro».
Questo mi pare molto riduttivo, perché non tiene conto della sostanza del
problema, né della sufficienza della Scrittura nel darci indicazioni etiche
vincolanti anche in merito a tale questione.
Se è vero che «il fumo
uccide», sia esso attivo o passivo, com’è anche scritto nei pacchetti
delle sigarette, e come sempre più sta dimostrando la ricerca, non rientra
questo nel raggio di applicazione di prescrizioni inoppugnabili e
incontrovertibili tipo «Non Uccidere» (Es 20,13), «amerai il tuo prossimo
come te stesso» (Lv 19,18), «l’amore non fa nessun male al prossimo» (Rm 13,10), «astenetevi da
ogni specie di male» (1 Ts 5,22) ecc.? Può anche darsi
che l’autore umano non aveva in mente «il problema fumo» come lo intendiamo
oggi, però, il principio etico che ne viene fuori, ha molto da dire proprio su
tale «moderna» questione. Come del resto possiamo affrontare le altre moderne
questioni tipo la fecondazione artificiale, la manipolazione genetica, la
clonazione ecc., se non sappiamo cogliere dalle prescrizioni bibliche quei
principi universali valevoli per ogni luogo e per ogni tempo? Visto che la
sigaretta è un male e un danno sotto qualsiasi aspetto, sia per la sua
tossicità che per la dipendenza che crea, io credo che il fumo rientra nella
sfera di applicazione di una corretta esegesi perlomeno dei brani su menzionati.
Proprio da te Nicola ho
sentito che la Scrittura è la norma che serve a
regolare tutta la realtà. Addirittura hai scritto: «La Bibbia non è un
quindi un libro di filosofia ne di storia ne di scienze o altro; ma ciò che dice
è verità e norma, anche nei campi suddetti. Essa è norma di fede, di vita e di
morale… La Bibbia è — come dicevano gli antichi teologi — la norma normante
della realtà»
[Nicola Martella,
Radici 1-2
(Punto°A°Croce, Roma 1994), p. 15]. Un’esegesi dunque è corretta se sa tirar
fuori quel seme, quel criterio,
quel principio che può fecondare, valutare e regolare tutta la realtà. Sarebbe
dunque incompleta e non corretta quell’esegesi che si blocca a metà strada e non
regola tutti gli aspetti del reale. Nel reale troviamo la sigaretta, il problema
fumo con i suoi dannosi effetti. La Scrittura non ha niente da dire su questo
male moderno? È solo una questione secondaria, un problema di buon senso od
altro? NO! La Scrittura dice di astenerci da ogni specie di male (1 Ts
5,22) e sarebbe cattiva esegesi togliere dal novero di queste ogni specie
il male del fumo. Come bisognerebbe levare la voce su altri mali moderni non
espressamente contemplati nella Bibbia, ma che sono comunque una palese
violazione dei suoi principi, e come tale ci attirano il giudizio di Dio,
così bisogna levare la voce contro il fumo. Il fumo lede il fondamentale
principio di rispetto per la vita. Il fumo è uno spreco di vita! Il fumo è una
pistola puntata alla testa, la cui pallottola impiega 40 anni in più per
colpire, ma prima o poi colpisce! Non pensi che tutto questo sia un offesa per
il nostro Creatore che ci ha dato la vita? Già solo sotto l’aspetto creazionale
l’uomo è colpevole davanti a Dio per le sigarette che si fuma. Tanto più è
colpevole un cristiano che è chiamato a spendere la sua vita per Cristo e non
per i fumi della sigaretta.
In linea generale, mi
pare utile riprendere la classificazione fatta da Giuseppe Martelli
apparsa su Lux Biblica 16 (Ibei, Roma), su «come consultare la Bibbia
nelle questioni etiche». Egli dice che le Sacre Scritture hanno, nelle questioni
etiche, un triplice ruolo:
■ 1) Un «ruolo di
guida, tutte le volte che forniscono indicazioni o comandamenti su una data
materia» e cita a titolo di esempio le pratiche dell’adulterio, del divorzio e
dell’omosessualità (p. 24).
■ 2) Un «ruolo di
giudice, nel senso che essa può rivestire un importante funzione critica se
vengono utilizzati i chiari dati in essa contenuti… In tal modo si consentirà
alla Parola di Dio di fornirci utili paradigmi sulla base dei quali esprimere
giudizi su altre questioni etiche che essa non tratta direttamente, ma sono
strettamente collegate alle precedenti… In questo caso non esistono comandamenti
espliciti e diretti di Dio in merito a dette questioni» (p. 24).
■ 3) Un ruolo di «cartello
indicatore, in altri aspetti della morale da essa non espressamente
regolati. In questo senso, in particolare assumono rilevanza e possono esser
sufficienti dati biblici di carattere generale quali la creazione, oppure
principi scritturali come il rispetto della vita umana» (p. 25).
Mi pare che questa classificazione abbia il merito di
mostrare che il ruolo etico della Scrittura non si esaurisca con le sue
«prescrizioni inoppugnabili e incontrovertibili». Nella questione del fumo, la
Scrittura può svolgere sia un ruolo di giudice che di cartello indicatore.
{2006-2007}
2.
{Nicola Martella} ▲
Ringrazio Tonino Mele per la sua presa di posizione. La domanda che si pone per
l'intera etica è se le sue osservazioni esauriscano l'intera portata del tema.
Il problema del «fumo», come si vede, è qui basilare per l’intera etica. Allora
poniamo le seguenti domande. ▪ 1) Chi stabilisce ciò che è peccato o meno? (la
morale dei cristiani? la convenzione religiosa? i chiari comandamenti di Dio?).
▪ 2) Visto che la Parola distingue fra «trasgressione» e «impurità», perché
oggigiorno viene classificato tutto come «peccato»? ▪ 3) Come regolarsi in senso
esegetico ed etico su temi che la Bibbia non affronta direttamente (quale
appunto il «fumo»)? ▪ 4) Perché i «moralizzanti» applicano certi brani biblici
(il corpo quale tempio dello Spirito, ecc.) a certi temi sì (p.es. il «fumo») e
altri temi no (abuso di caffè, di cibo, di TV, uso sbagliato delle proprie
forze, ecc.)? ▪ 5) Non è più corretto affermare che la Bibbia non affronta certi
temi, perciò non possono essere chiaramente dichiarati come «peccato», e usare
motivazioni di tipo scientifico, medico e salutista, lasciando infine
all’individuo e alla sua coscienza dinanzi a Dio di decidere («quello che uno
semina, miete»), senza mettere in forse la sua fede, come alcuni invece fanno?
A tutto ciò si aggiunga quanto segue: Come inquadrare la problematica specifica,
facendola passare per le seguenti porte? ▪ 1) La cosa in questione è chiaramente
proibita nella Bibbia? ▪ 2) Se non è chiaramente proibita, come s’accorda col
«tutto m’è lecito» di Paolo? ▪ 3) Se è una cosa lecita, il suo uso mi rende un
uomo «libero» o «dipendente»? ▪ 4) Sebbene una cosa sia lecita e non coercitiva
sulla psiche, essa edifica gli altri? ▪ 5) Brani: 1 Cor 6,12; 10,23.
Si veda al riguardo il seguente tema:
►
La morale dei cristiani.
3.
{Tonino Mele} ▲
Ci tengo a precisare che quella che Nicola chiama una mia «presa di posizione»
sul fumo, in realtà non è una «postazione» nella quale sto fermo e trincerato.
Più che fermo in una posizione determinata, mi ritengo in cammino, alla ricerca
della verità. Ed è per questo che vorrei ora essere più propositivo che
affermativo. Del resto, le mie precedenti affermazioni erano dettate soprattutto
dal fatto che ritengo insoddisfacente il mettere il problema del fumo
completamente al di fuori delle prescrizioni divine. Per intenderci, non
credo che sia solo un problema di tipo culturale, ma etico nel vero senso della
parola, perché ha a che fare con il rispetto della vita umana. Se i fratelli di
qualche secolo fa si fumavano il Toscanino è anche perché non erano edotti sugli
effetti e i rischi del fumo come invece lo siamo noi oggi, grazie alla ricerca
scientifica. Permettimi di dire che noi siamo molto più responsabili di loro,
proprio grazie a questa maggior conoscenza. Oggi abbiamo più elementi per «esaminare
ogni cosa e ritenere il bene» e, «chi sa fare il bene e non lo fa
commette peccato». Del resto, mi pare che anche tu riconosci l’elemento
etico della questione, quando dici che «il problema del “fumo”», come si vede, è
qui basilare per l’intera etica.
Le tue domande critiche poste alla mia «posizione» sono
interessanti, ma credo che hanno tutte un presupposto comune, che, per te sembra
assodato, ma per me non lo è. L’assunto da cui tu parti è che la Scrittura non
ha niente da dire sul fumo. Lasciamo da parte i moralizzatori, che già il
Signore Gesù ha messo a tacere, quando ha detto: «Chi è senza peccato scagli
la prima pietra». Ma perché si continua a parlare di «motivazioni di tipo
scientifico, medico e salutista», e non anche di motivazioni bibliche,
teologiche e antropologiche. Perché questa separazione concettuale che rischia
di trasformare queste «motivazioni di tipo scientifico» in dei paraventi, di
modo che l’individuo non si assuma le proprie responsabilità dinanzi al Creatore
della sua vita? Non è Dio il Creatore delle leggi scientifiche, mediche e
salutiste che governano la vita umana? Disattendere queste leggi non diventa, a
secondo della gravità, anche un problema morale? Distruggere l’ordine
creazionale delle cose (e il fumo lo fa a livello cellulare) non è andare contro
la volontà di Dio? C’è bisogno che il fumo compaia in una lista biblica di
peccati? Non basta riconoscere che la sigaretta distrugge ciò che di buono Dio
ha fatto? La dottrina biblica della creazione, non è un forte richiamo ad
astenersi da ciò che deturpa l’opera delle mani di Dio? Come si può sostenere
che la Scrittura non ha niente da dire sul fumo?
Tutte queste domande ci sospingono verso la questione
che mi pare veramente cruciale: Cos’è l’esegesi? Come dobbiamo fare esegesi?
Dove si ferma l’esegesi? L’applicazione fa parte dell’esegesi? L’applicazione va
intesa come un impulso elettrico che da un punto finisce in un altro punto, o
come un faro che illumina un ventaglio di situazioni? Per capire la relazione
tra queste domande e la questione del fumo, chiediamoci ancora: i primi
missionari giudeo-cristiani quando hanno evangelizzato i pagani, come hanno
applicato l’etica della legge (data in un determinato contesto culturale, con
abitudini peccaminose proprie) ai nuovi contesti e alle nuove forme di peccato
(ogni cultura sforna i suoi peccati)? Se è vero che il peccato è la violazione
della legge, come poteva la legge data ai giudei, in un contesto storico e
culturale preciso, avere valore per i nuovi popoli, con i loro «diversi» modi di
essere e di peccare? Possiamo dire che tutte queste nuove forme di peccato erano
direttamente e dettagliatamente disciplinate dalla legge? Penso che soprattutto
una ricerca di questo tipo ci aiuterà a vedere, in un ottica più aderente
all’esegesi, le moderne questioni etiche, tra cui quella del fumo. Penso che una
ricerca di questo tipo dovrebbe mostrare il carattere universale della legge, il
quale, costruendosi sulle sue chiare affermazioni, si eleva a principi di
carattere generale, che ci danno modo di valutare la realtà di ogni tempo e di
ogni luogo. Questa però non vuol essere un’affermazione ma un’idea tutta da
dimostrare e credo che l’ipotesi di lavoro su menzionata sia lo strumento adatto
per suffragarla o meno. Come ho detto all’inizio, non voglio essere affermativo,
ma propositivo. Anch’io concordo che non «la morale dei cristiani» o «la
convenzione religiosa» stabiliscono ciò che è peccato, ma «i chiari comandamenti
di Dio». Il problema è come dobbiamo intendere questi comandamenti. Soprattutto,
come li hanno intesi e usati i missionari giudeo-cristiani dell’era apostolica,
davanti alle nuove realtà costituite dai popoli pagani. Forse, tra un estremo
(ogni pagina della legge parla contro il fumo) e l’altro (nessuna pagina della
legge parla del fumo)… c’è un terzo approccio, probabilmente più equilibrato di
cui tener conto. Avanti con la ricerca! {2006-2007}
4.
{Nicola Martella} ▲
Sono contento della disponibilità di Tonino di ragionare insieme su un livello
più di ricerca della verità che di posizione assolutistica. Come detto, io
personalmente sono contro il «fumo». Ma qui di seguito sono chiamato a difendere
quella che io chiamo «l’etica di libertà e responsabilità», chiaramente
prescritta e ancorata nel NT.
Ora, il titolo dell’articolo di Tony Warren «Is
Smoking a Sin?» — arrivatomi da te in italiano come «Fumare è peccato? Sì,
in tutti i sensi!» — non lascia scampo. A ciò si aggiunga che un primo bilancio,
dopo l’introduzione, contiene già la sentenza inappellabile: «Di fatto, se si
esaminano a fondo le Scritture e si considerano tutti i fatti pertinenti,
l’unica risposta “onesta” che si possa dare a questa domanda è sì. Fumare è
peccato, ed è peccato a molteplici livelli». Questo è il tipico modo di
argomentare di chi ha già la soluzione e che cerca solo di sostenere con
argomenti biblici (diciamo versettologici) e logici. Ciò che si vuole
dimostrare, viene messo come apriorismo insindacabile! Questa è correttezza?
Per questi motivi, leggere che ti ritieni «in cammino,
alla ricerca della verità», non può che rallegrare. Nessuno vuol «mettere il
problema del fumo completamente al di fuori delle prescrizioni divine»,
la questione è che si deve rimanere assolutamente corretti e intellettualmente
onesti. I problemi culturali investono certamente la sfera etica, ma non si può
dire che tutto ciò, che culturalmente ed eticamente non ci aggrada, sia
automaticamente «peccato». Paolo discusse tali questioni in Rm 14, dove si
incontravano e scontravano due sensibilità religiose e culturali (cibi da
mangiare e giorni da osservare), e altrove, quando parlò della circoncisione e
degli altri costumi giudaici. Anche i Giudei cristiani ponevano riguardo
all’alimentazione la questione del rispetto della vita umana (e della Torà) e
della sua salvaguardia.
Riguardo al fatto che i credenti «qualche secolo fa si
fumavano il Toscanino», tu adduci come argomentazione: «anche perché non erano
edotti sugli effetti e i rischi del fumo come invece lo siamo noi oggi, grazie
alla ricerca scientifica». Nota che non adduci un argomento di tipo esegetico
del tipo «non avevano abbastanza conoscenza biblica» (cosa che potrebbe essere
ovviamente smentita), ma di tipo razionalistico. Ma ciò non chiarisce che in
tutto il mondo attualmente ci sono centinaia di migliaia di cristiani che
fumano: sono tutti falsi credenti o trasgressori di un chiaro comandamento di
Dio? Abbiamo la presunzione di avere «maggior conoscenza» anche di loro? Non è
possibile che, vagliato il tema a livello personale ed ecclesiale, siano
arrivati ad altre conclusioni? Dico questo, sebbene io sia contrario al «fumo».
È chiaro che ogni problema, quindi anche il «fumo»
abbia una portata per l’etica, ma non bisogna «barare», assolutizzando le
questioni. Nei due principi biblici, da te menzionati — «esaminare ogni cosa
e ritenere il bene» e «chi sa fare il bene e non lo fa commette peccato»
— non li si può assurgere a principi tagliati su misura per il «fumo», ma anzi
qui si mostra il grande pericolo della decontestualizzazione basato sulla
«versettologia». Applichiamo i principi dell’esegesi e verifichiamo come stanno
veramente le cose! ● Il primo verso si trova in 1 Ts 5,19-22: qui cui Paolo
raccomandava di «non spegnere lo Spirito», quando Egli dava ai credenti delle
intuizioni profetiche (cfr. 1 Cor 14,3.29ss), ma consigliava loro che essi —
lungi dal disprezzarle — le vagliassero e ritenessero il buono che c’era in
esse, ricordandosi però che — siccome lo Spirito non poteva suggerire ai
credenti qualcosa contraria alla Scrittura — essi si astenessero da ogni specie
di male. Che c’entra questo con il «fumo»? L’apostolo non affrontò qui l’abuso
di sostanze o l’uso sbagliato di esse. ● Il secondo verso si trova in Gcm 4,17:
qui cui Giacomo trae le conseguenze di un lungo discorso, in cui affronta i
seguenti argomenti: le contese fra credenti (vv. 1s), i piaceri e l’amicizia del
mondo (vv. 3s), il rapporto viziato con Dio (vv. 5-10), sparlare dietro alle
spalle degli altri credenti (vv. 11s), la programmazione dell’esistenza senza
aver consultato Dio (vv. 13ss) e in tutto ciò un sentimento di millanteria e
vanto (v. 16). Giacomo non affrontò qui l’abuso di sostanze o l’uso sbagliato di
esse. Ma, nelle cose appena dette, egli conclude che chi, essendo a conoscenza
della volontà di Dio, non fa ciò che è «buono», commette un’infrazione. Egli
parlò a Giudei che conoscevano la Legge e che sapevano che si commetteva un
peccato, quando dalla Legge si veniva
convinti di essere dei trasgressori (Gcm 2,9). ● Chi conosce la letteratura
rabbinica del Medioevo (cfr. il Talmud), sa che essi discutevano sul significato
preciso di ogni comandamento e di ogni parola in esso. Dove non c’era una
risposta precisa su una nuova questione, i rabbini si guardavano dall’abusare
della Parola di Dio, ma cercavano dei principi (p.es. analogia, dal minore al
maggiore, ecc.); tali principi potevano solo orientare, ma non
costituire una regola assoluta, tant’è vero che sorsero diverse correnti nel
giudaismo. Anche Gesù si batté per difendere l’uso corretto dei comandamenti
della Torà contro le aggiunte della tradizione e l’uso arbitrario da parte di
alcune frange del giudaismo (cfr. Mc 7,9ss). A Gesù non veniva in mente di
mettere nei comandamenti di Dio un significato differente a quello evidente e
difese l’uso originario contro le «incrostazioni» venute dalla tradizione (cfr.
Mt 5,17ss). In tal senso, l’apostolo Giovanni ricordò ai credenti: «Chi fa il
peccato commette una violazione della legge; e il peccato è la violazione della
legge» (1 Gv 3,14). Se l’interpretazione della legge fosse soggettiva, non
ci sarebbe freno al soggettivismo; allora poveri noi tutti! Sui principi
dell’«etica della libertà e della responsabilità» del NT abbiamo già parlato e
ne parleremo ancora.
Tornando al contributo precedente, io non parto
dall’assunto che la Scrittura non abbia niente da dire sul fumo, come pensa
Tonino, ma la questione è tutta da accertare, però in modo corretto, onesto e
oggettivo. Bisogna parlare certamente di «motivazioni bibliche», quando ci sono,
ma il termine «biblico» è alquanto inflazionato ed è usato spesso da alcuni come
una coperta (versettologica) che essi tirano dalla propria parte per motivare le
proprie posizioni. Questa questione l’ho trattata abbondantemente nell’articolo
«Il bianco, il nero e il grigio» nel seguente libro Nicola Martella (a cura di),
Uniti nella verità, come affrontare le diversità
(Punto°A°Croce, Roma 2001), pp. 82-91; rimando a tale
articolo. In certi articoli c’è un cocktail di motivazioni, in cui — mancando
aspetti espressamente chiari ed evidenti — si pensa di renderle tali con una
commistione di versetti, spesso fuori contesto, argomenti di tipo razionali,
convenzioni sociali e morali, pratiche denominazionali, eccetera. Questa non è
una via corretta e convincente.
Certo che bisogna assumersi le «responsabilità dinanzi
al Creatore della sua vita», certo che «Dio il Creatore delle leggi
scientifiche, mediche e salutiste che governano la vita umana», ma questo non
sostituisce una corretta esegesi e un approccio corretto alla questione!
Il «fumo» dovrebbe comparire in una «lista biblica di
peccati»? Sì, sarebbe utile. Non è la «sigaretta» distruttiva, deturpante,
eccetera? Ora, pur essendo io contrario al fumo, so che gli stessi
argomenti sono usati in America contro ogni uso di bevande a base di
alcool (vino, birra). Almeno al riguardo la Bibbia parla contro gli ubriaconi (!
1 Cor 5,11; 6,10; Gal 5,21; ecc.), ma il vino viene consigliato anche come
farmaco! (Pr 31,6s; 1 Tm 5,23). Per i proibizionisti tali brani non valgono o
vengono rimossi dalla convenzione. Essi usano proprio le
stesse argomentazioni!
Quindi, che cos’è l’esegesi? Essa è l’analisi di
un testo nel suo contesto naturale (storico, letterario, culturale, teologico)
per risalire a ciò che l’autore originario intendeva dire veramente. ●
L’applicazione
fa parte dell’esegesi? No nel modo più assoluto. Infatti, l’applicazione dipende
dalla situazione non dell’autore, ma del lettore e questa può essere alquanto
diversa. L’esegesi è una, le applicazioni (legittime, verosimili e arbitrarie)
possono essere molte.
Portiamo un esempio: «il figlio prodigo» (Lc 15,11ss).
Un’esegesi corretta ci porterebbe a concludere che Gesù intendeva Israele
quale figlio (Es 4,22; Os 11,1) e Dio quale padre (Is 63,16; 64,8; cfr. Mt 6,9);
il Messia ingiungeva ai Giudei di credere in Lui e di tornare così a Dio.
Ricordiamo che si tratta delle parabole del regno. Come sappiamo i Giudei
rifiutarono Gesù quale Messia. L’applicazione legittima di questa
parabola riguarda un credente che si è sviato e che è esortato a tornare al
Padre (Dio è Padre solo dei credenti!). Alcuni applicano questa parabola (impropriamente)
anche per predicare l’Evangelo ai non credenti; ma dov’è la coerenza teologica,
secondo cui Dio è Padre di coloro che hanno già accettato Gesù quale Messia? Da
un’errata applicazione si può costruire — come poi si fa — una falsa dottrina di
una paternità universale di Dio (siamo tutti figli di Dio!).
Una cattiva pratica dei cristiani è la «versettologia»,
ossia una lista di versetti tolti dal loro contesto e usati per accreditare le
proprie convinzioni. Alcuni decenni fa un agguerrito avventista venne nella
chiesa italiana di Stoccarda lesse 10-15 versetti sul sabato, concludendo: «Da
ciò risulta chiaro che noi abbiamo la dottrina giusta». ● Altra cosa sono i
principi che guidano la ricerca di
criteri biblici in cose che la Bibbia non tratta per nulla, in modo oscuro o
solo indirettamente (si pensi ad esempio a questioni come la masturbazione, gli
anticoncezionali). Come abbiamo visto già i rabbini insegnavano principi come
l’analogia, risalire da una cosa minore a una maggiore e così via; ma essi
rimangono principi orientativi e non sono pari all’esegesi.
I primi missionari giudeo-cristiani, a cui Tonino si
appella, avevano in mente solo di giudaizzare i credenti delle nazioni. Fu Dio
stesso a mandare (proprio) Pietro da Cornelio (At 10) ed egli non ebbe poche
difficoltà a dover convincere i fratelli di Gerusalemme, che lo rimproverarono
per tale fatto (At 11,1ss). Il grande apostolo delle genti fu Paolo, ed egli si
oppose nettamente che i Gentili fossero assoggettati al giogo della Legge; si
veda qui la lettera ai Galati e la decisione storica del concilio di Gerusalemme
(At 15; 21,25). E nonostante ciò, altri cristiani giudei continuarono con la
loro opera di giudaizzazione dei cristiani delle nazioni! Non si può quindi
prendere i Giudei cristiani quali esempio per la questione etica (cfr. anche Gal
2,13s). Paolo dovette spesso scontrarsi con i giudaizzanti. Paolo insegnò ai
cristiani gentili l’etica del nuovo patto o quella che io chiamo «l’etica della
libertà e responsabilità». Perciò anche nel NT troviamo dei cataloghi precisi di
peccati (1 Cor 6,9; Gal 5,19ss; Ap 21,8). L’enfasi venne messa però sulla
ricerca della volontà di Dio; certo al riguardo l’AT divenne fonte di analogia
(Rm 15,4), ma esso aveva perso però il suo carattere d’ingiunzione a causa del
mutamento del patto. In ogni modo, anche nel NT si parla chiaramente di peccati
concreti; e non tutto ciò che i credenti facevano, era dichiarato peccato.
In tutto ciò, una cosa è ciò che si evince chiaramente
dall’esegesi, altra cosa sono i principi di analogia che si vogliono evincere.
Nelle scuole bibliche americane o iniziate da loro, si insegna che bere vino sia
peccato e condannato da Dio. Quando ero in Germania in una scuola biblica del
genere, mi si fece firmare un impegno al riguardo. In quel tempo evangelizzando
fra gli italiani, mi trovai in un paradosso incredibile, a causa dell’ospitalità
di quest’ultimi e del fatto che si offendevano, quando si rifiutava quanto essi
offrivano. I fondatori di tale scuola biblica ritenevano di basarsi su «chiare»
affermazioni bibliche, elevati a «principi di carattere generale» e ritenevano
che essi dessero «modo di valutare la realtà di ogni tempo e di ogni luogo»! È
sempre pericoloso partire dalle convenzioni stabilite dai cristiani in una certa
situazione storica e assurte e principi biblici e universali. È chiaro che poi
in altre situazioni e contesti, si penserà che i cristiani ivi presenti siano
chiari trasgressori della Parola di Dio (in effetti delle loro convenzioni
assurte a principi divini).
Non è strano che i cristiani americani (e non) cerchino
di argomentare «biblicamente» contro il «fumo», ma non facciano altrettanto con
altre cose che costano la vita ogni anno a tanti loro concittadini. Ecco alcuni
esempi. Mangiare non è peccato, ma in America l’obesità è una vera emergenza
sociale. Quand’è che qualcuno come Warren scriverà un articolo su tale
«peccato»? In articoli del genere basta sostituire la parola incriminata (qui
«fumo») con un’altra e il discorso filerebbe lo stesso (p.es. obesità) o si
arriverebbe a dei paradossi (p.es. caffè, shopping, gioco, TV, sport, cure del
corpo). Stare al sole non è peccato, ma quante persone, che prendono la
tintarella, danneggiano ogni anno la loro salute, facendo invecchiare il corpo e
buscandosi il cancro alla pelle? Guidare la macchina non è peccato, ma
statisticamente quante persone vengono ferite e quante muoiono ogni anno sulle
strade!? Ne muoiono più per il «fumo» o in incidenti stradali? La lista potrebbe
continuare a lungo. Ciò mostra che potremmo filtrare il famoso moscerino (qui il
«fumo»), perché appare evidente, e inghiottire il rinomato cammello.
Per i principi esegetici da tener presente in questioni
non chiaramente trattate dalla Bibbia rimandiamo a un articolo a parte. [►
L’interpretazione biblica]
Sul valore della Legge per i
cristiani cfr. Nicola Martella, «La questione della legge»,
Šabbât(Punto°A°Croce,
Roma 1999), pp. 51-56. Vedi qui anche «La questione della domenica», pp. 57-69. |
5.
{Minop} ▲
Per distendere l'argomento, riportiamo un vecchio motto di spirito, riscaldato
per l'occasione dal «giovane dentro», alias minop:
■
Segnali di fumo: «Un
conduttore di chiesa predicò sul tema “Fumare è lecito per un cristiano?”. Alla
fine concluse con la seguente battuta: “Inoltre, se il Signore fosse d’accordo
con i credenti che fumano, avrebbe creato sulla loro testa anche un ...camino”»
{adattamento da un testo di minop}. {2006-2007}
6.
{Tonino Mele} ▲
Nota editoriale: È da tempo che l’autore mi ha mandato questo testo. Già
la sua lunghezza mi subito ha spaventato. Nella lettura ho scoperto un testo che
è poco lineare (per chi legge). A ciò si aggiunga che più che rispondere a una
questione e più che affrontare un tema, l’autore ci presenta una «enciclopedia»
di questioni e d’argomenti.
Tonino ha certamente una grande capacità d’analisi e di
ricerca e bisogna riconoscere il suo sforzo di argomentare in modo corretto e
profondo. Scrivere per il Web è un’arte particolare, dove lunghi documenti e
testi poco lineari e strutturati hanno poca chance di essere letti.
Purtroppo il suo dilungarsi su alcuni aspetti secondari
o addirittura marginali (tornandoci continuamente sopra) e la sua mancanza di
un’argomentazione lineare e sintetica, mi ha trattenuto dal metterla in rete
così com’è o dall’accompagnarla da un minimo di analisi e valutazione finale.
Vista la sua (legittima) sollecitazione, faccio ora
l’una e l’altra cosa. Riconosco a Tonino una grande capacità di ragionamento e
disputazione, ma la sua mancanza di sintesi potrebbe dissuadere nella lettura e
comprensione i lettori meno preparati. Tonino avrebbe fatto meglio a dividere il
suo lungo documento in più argomenti (p.es. fumo, esegesi, altro), tanto più che
si tratta di un contributo a un tema di discussione. Farà certamente meglio la
prossima volta. {Nicola Martella}
*°*°*°*°*°*°
Caro Nicola, mi rallegro di sentirti dire finalmente che non vuoi «mettere il
problema del fumo completamente al di fuori delle prescrizioni divine»,
che anche «il fumo abbia una portata per l’etica», che non parti «dall’assunto
che la Scrittura non abbia niente da dire sul fumo», che bisogna «assumersi le
responsabilità dinanzi al Creatore della propria vita» e che certamente «Dio è
il Creatore delle leggi scientifiche, mediche e salutiste che governano la vita
umana». Ti ringrazio anche per la tua doppia «puntualità”: sia perché le tue
risposte sono giunte a stretto giro di posta e sia perché le hai costruite punto
per punto. Tuttavia, non posso non fare alcune riprese critiche di quanto
tu affermi.
■ Un elemento «forte» della tua risposta è che continui
a parlare del «fumo» come di un «problema culturale», precisando sì che
«certamente investe la sfera etica», ma che resta comunque culturalmente
condizionato. Ed è così preponderante quest’aspetto, che lo riprendi spesso,
corroborandolo soprattutto con esperienze personali, sicuramente interessanti,
ma che restano semplicemente
soggettive e che possono essere agevolmente smentite da altre esperienze
soggettive di segno opposto. Per conto mio ti posso dire che le persone più
intransigenti verso il fumo che io conosco, sono missionari tedeschi e non
americani. Inoltre, da quello che ho visto e sentito, ti posso assicurare che
molto spesso, in questi casi non gioca tanto un fattore culturale, ma un fattore
personale, ad es. un figlio che fuma, l’incapacità di opporsi al richiamo
della sigaretta, ecc. Ed è proprio in questi casi che io ho sentito dire le tue
stesse parole: «Io personalmente sono contro il fumo, ma non possiamo dire che
il fumo è peccato», laddove, in un passato recente non si facevano per niente
«distinguo» di questo tipo. Un’altra apologia del fumo che ho sentito con le mie
orecchie da persone così coinvolte è che «la voglia di fumare è qualcosa di
ereditario». Un altro apologeta del fumo,
personalmente coinvolto, mi diceva una volta, che in prossimità del mio
paese si è usato molto l’amianto per costruire non ricordo cosa e che quindi
eravamo tutti a rischio di tumore, perché preoccuparsi dunque del tumore che può
causare la sigaretta? Un altro ancora, per equilibrare probabilmente la tesi che
«il fumo non è peccato», ne diceva peste e corna sotto il profilo medico e
salutistico, in un modo talmente esagerato, che sarebbe stato preferibile e
più tranquillizzante sentirgli dire il fatidico verdetto: «il fumo è
peccato». Un altra impressione
soggettiva che mi son fatto in merito è che oggi dire che «il fumo non è
peccato» sta diventando una sorta di rivalsa e di atteggiamento emancipatorio
contro chi continua a sostenere una tal cosa. Prima si diceva «non riesco a
smettere». Oggi si sente sempre più dire «non è peccato, perché smettere?».
Così, forti della nuova «libertà», oggigiorno, molto paradossalmente, assistiamo
a dei cristiani che fumano sfacciatamente, mentre molti non credenti stanno
smettendo, anche dall’oggi dal domani. Mi è stato raccontato di quest’assemblea
tedesca, dove anche anziani e fratelli che hanno un ministero pubblico nella
chiesa fumano. La sorella che me lo raccontava è salita, in un momento
d’intervallo, nella caffetteria sopra la chiesa, dove, uno di questi anziani,
appena l’ha vista, tutto imbarazzato ha nascosto la sigaretta. Domanda:
quanti sono quelli che fumano dopo aver veramente «vagliato il tema a livello
personale ed ecclesiale»?
■ Come vedi, non giova ad una sincera e onesta
ricerca della verità, mettere il problema fumo su questo piano. Anche la realtà
ha bisogno della sua corretta esegesi, con regole che siano il più
possibile oggettive, altrimenti, anche qui si corre il rischio di tirare la
coperta (culturale) dalla parte delle proprie posizioni preconcette. Se si
tratta di un problema culturalmente determinato, lo dovrebbe stabilire meglio
un’indagine sociologica e statistica rigorosa, più che le nostre soggettive
esperienze. Un’indagine di questo tipo dovrebbe poi aiutare a chiarire chi
sono queste «centinaia di migliaia di cristiani che fumano attualmente in
tutto il mondo». Anche qui si rischia di «barare» se si da come acquisita
l’equità del loro comportamento, semplicemente perché sono «centinaia di
migliaia in tutto il mondo». Non voglio fare facile moralismo, ma anche questa è
una cosa «tutta da accertare». Per quel che ne so, mi è giunta voce (non conosco
però la fonte ne il metodo di ricerca seguito) di statistiche fatte su un
campionario di cristiani che fumano, e i risultati hanno messo in evidenza un
livello spirituale alquanto precario. Vero è che un altro termine alquanto
inflazionato oggigiorno è anche quello di «cristiani».
■ Si badi bene: non sto affermando che sul problema
fumo, la «percezione culturale» non abbia nessun ruolo. Tutt’altro! Esiste
anche una dimensione culturale del problema, e questa investe sia chi si
schiera contro il fumo e chi a «favore». Sarebbe interessante a tal proposito,
che un’indagine sociologica accertasse anche che ruolo gioca sulla «questione
del fumo», una certa insofferenza strisciante che caratterizza le scuole
teologiche europee, più attente alle questioni di principio, rispetto alle
scuole teologiche americane, considerate più pragmatiche e approssimative. È
stato detto della teologia americana che è animata da un «pragmatismo senza
dogmi» e da «una libertà scientifica che non cessa di scandalizzare gli
europei
(corsivo mio)». [E. Genre, Nuovi itinerari di teologia pratica
(Claudiana, Torino 1991), p. 143.] E come illustri bene, la questione del fumo
si presta abbastanza a evidenziare le contraddizioni della cultura e della
teologia americana. Ci sono dunque gli estremi per chiedersi: quanto ha
condizionato la visione del problema «fumo», quest’atteggiamento insofferente e
scandalizzato di certi ambienti teologici europei? Quanto delle attuali
posizioni teologiche «pro-fumo» sono motivate, forse anche inconsciamente da
questo latente antiamericanismo teologico? Quanto di queste posizioni deriva da
un uso strumentale
della questione più che da una serena e oggettiva ricerca della verità? Si
tratta davvero della solita «americanata»?
■ Un altro elemento che sento di dover riprendere, più
per correttezza storica che per altro, è quello dei fratelli del passato che
ormai possiamo simpaticamente identificare come «quelli del toscanino». Citarli
«per verità di cronaca» in un dibattito come questo dovrebbe esser fatto
distinguendo quella che è una «cronaca storica» da una «cronaca giornalistica»,
altrimenti si rischia di non dare più una «verità di cronaca». Dare una
«cronaca giornalistica» significa, di solito, dare una notizia e basta. Dare una
«cronaca storica» significa dare anche delle notizie sul periodo storico da cui
quella cronaca è stata attinta e soprattutto la «visione del mondo» che avevano
i personaggi coinvolti. Rispetto al «fumo» la loro visione del mondo era
limitata. Non avevano le conoscenze scientifiche e mediche che oggi abbiamo.
Equiparare il loro toscanino e con esso il loro comportamento «disinformato ed
inconsapevole» alla nostra moderna sigaretta e quindi al nostro «informato e
consapevole» comportamento, significa confondere i tempi, adombrando la falsa
idea che essi continuerebbero anche oggi a fumare, a dispetto di tutti gli
avvertimenti che la scienza ci ha dato nel frattempo sugli effetti dannosi del
tabacco. È questa correttezza storica? Non possiamo omologare il loro
comportamento al nostro. Uomini di forti principi com’erano, mi chiedo come
avrebbero visto oggi il problema fumo, se fossero edotti sui suoi effetti.
Certamente che non è in discussione la loro conoscenza biblica, ma la loro
conoscenza della realtà del problema, sì. Il ruolo determinante non lo gioca qui
la percezione culturale, ma la percezione del reale. Anche qui, uno storico che
non «bara» dovrebbe dare il giusto peso a questa diversa consapevolezza tra noi
e loro. E così è infatti. Cito Daisy Ronco, autrice della pregevole biografia
del Rossetti (probabilmente uno di quelli del toscanino che cita Nicola): «Non
mi risulta che i fratelli inglesi fumassero e Isabella (moglie del Rossetti)
doveva aver messo come condizione al marito di fumare solo nel suo studio. In
Italia questa abitudine era frequente fino all’inizio di questo secolo; ricordo
un aneddoto che mio padre mi raccontava dell’assemblea di Casorzo Monferrato,
dove era nato e si era convertito (1898). I fratelli si riunivano molto tempo
prima che il culto cominciasse chiacchierando amichevolmente, fumando chi il
sigaro, chi la pipa ecc. Quando giungeva l’ora del culto, l’anziano, molto
stimato, Sig. Buraghi diceva in Piemontese “cominciamo” e immediatamente si
faceva silenzio e le pipe e i sigari venivano spenti. Pochi anni dopo una
missionaria inglese, Mrs. Willy, in visita a varie comunità fece osservare con
molta delicatezza che non le sembrava convenevole né alla gloria di Dio
celebrare un culto in un’atmosfera affumicata simile a quella di un’osteria.
Quali altri argomenti contro il fumo potesse dare a quel tempo (oggi ne
conosciamo le disastrose conseguenze sulla salute! - corsivo mio) mio padre
non ricordava, ma il fatto fu che tutti i fratelli, dall’anziano Buraghi ai più
giovani, smisero di colpo di fumare!». [D.D. Ronco, Crocifisso con
Cristo
(UCEB, Fondi 1991), p. 77s.] Questo è fare cronaca storica. Ma Daisy non si
ferma qui e completa il quadro come segue: «Secondo il giudizio di due amici
medici, a cui ho spiegato le condizioni fisiche del Rossetti, questi era
probabilmente affetto da tubercolosi — dato che sputava sangue ed era soggetto a
bronchiti ecc. — aveva la pressione alta — condizione che non era aiutata dal
fatto che fumava e gustava molto la buona tavola — e il cuore malandato. Questo
spiega i due attacchi di paralisi e infine il fatale infarto». [Ibid., p.
110.] A questo punto sarebbe opportuno dire, visto l’argomento che stiamo
trattando, che, per «verità di cronaca» il Rossetti fumava il toscanino e molto
presumibilmente questa è una delle cause che l’ha portato a una morte
prematura.
■ Certamente che qui siamo ancora nella sfera delle
argomentazioni di «tipo razionalistico», ma anche queste vanno fatte in modo
corretto, soprattutto in questo caso, ove, proprio la realtà ci aiuta a definire
il problema e quindi a dargli l’opportuna collocazione nell’ambito delle
«prescrizioni» divine. È sempre rischioso citare il passato nel presente, se non
lo si fa con criterio. Cosa ne direbbe Nicola se, in una discussione sui
«bicchierini» e il pane sminuzzato della «santa cena», si citasse «per verità di
cronaca» quanto scritto , presumibilmente dal Rossetti sugli «errori» delle
«chiese protestanti»: «Errano nella Santa Cena, dando il pane sminuzzato, come
il prete da l’ostia, e contro la Parola che dice che dobbiamo romperlo»?
[T.P. Rossetti, Principi della chiesa romana, della chiesa protestante e
della chiesa cristiana, citato da A. Biginelli, I fratelli ieri oggi e la
Bibbia (UCEB, Fondi 1991), p. 127.]
■ Parliamo ora di quella che tu definisci
«versettologia». Sono d’accordo su tutta la linea. Ma quando usi come esempio i
due testi da me citati nel mio precedente contributo, credo che non hai scelto
gli esempi migliori. Certo che la tua ricostruzione esegetica è quella, più o
meno, a cui conducono i due testi, ma poi c’è un principio generale che può
riguardare anche il fumo come altre questioni. Il primo principio è che, data
una questione (siano esse le intuizioni profetiche che altre questioni anche
moderne), bisogna valutarla per discernere il bene dal male e ritenere anche
praticamente il bene. Il secondo principio è ancora più semplice e dice che non
basta sapere il bene, ma bisogna anche praticarlo, altrimenti si pecca. È vero
che il contesto del libro pone l’enfasi su alcuni peccati specifici, ma non mi
pare che ciò escluda la sua applicazione anche in altri ambiti. Al di la del
principio contingente proprio del brano, c’è anche un principio più generale che
rende il testo rilevante anche per noi oggi. Non parlo di un principio
arbitrario, costruito a posteriori dall’esegesi sulla base di qualche criterio
rabbinico, ma di un principio legittimo, emergente dal senso stesso del testo e
per via del quale esiste il testo stesso sul quale si fa esegesi. Il principio
di «esaminare ogni cosa e ritenere il bene» (1Ts. 5,19-22) è un principio
generale che qui Paolo applica a una situazione particolare. «Questo è un
precetto generale, non limitato alla prova dei doni spirituali, anche se ha
un’applicazione a quel problema. Il verbo è
dokimazo, spesso usato per provare i metalli, e può derivare da questa
pratica. Giunge a significare il provare in generale… Qui significa chiaramente
“evitare la credulità”». [L. Morris, Le epistole di Paolo ai Tessalonicesi
(GBU, Torino 1985), p. 142.] Anche tu nei fai un uso generale, quando dici: «Il
colloquio di cura d’anime parte, quindi, da una posizione d’amore (1 Cor 13),
dalla richiesta fatta a Dio circa la sapienza necessaria (Gcm 1,5), da una
base di conoscenza dei fatti (1 Ts 5,21- corsivo mio)». [N. Martella,
Entrare nella breccia
(Punto a Croce, Roma 1996), p. 236.] «Il colloquio di cura d’anime» c’entra
qui più del fumo? Forse, ma resta il fatto che non è di questo che il testo sta
esattamente parlando. Altrove colleghi 1Ts 5,21 a Fil 1,9s [Ibid., p.
58.]: «Prego che il vostro amore abbondi sempre più in conoscenza e in ogni
discernimento, perché possiate apprezzare le cose migliori».
Quest’ultimo esprime in nuce il principio generale e non lo lega a nessun
ambito particolare; l’altro testo in discussione invece lo applica ad un
contesto specifico, però lo esprime in una forma a mio modesto avviso più
felice. È un «barare» il riportare tale principio al suo ambito generale anche
se lo cito nella forma che gli è stata data in un contesto particolare? Stessa
cosa dicasi dell’altro testo da me citato (Gcm 4,17). R. V. G. Tasker definisce
questo testo «una massima le cui conclusioni sono per i cristiani assai più
vaste di quella che se ne possa trarre da questo contesto particolare». [R. V.
G. Tasker, L’epistola di Giacomo (GBU, Torino 1982), p. 136.] Anche qui
c’è un movimento dal generale al particolare, che non preclude la sua
applicazione ad altri ambiti, ma anzi la incoraggia e la istruisce, perché ci
mostra il modo di farlo. Cosa c’entrano 1 Ts 5,21 e Gcm 4,17 col problema
fumo? Niente di più di quello che pensa Nicola. Infatti, non li ho citati per
fare un apologia del fumo, altrimenti vi avrei costruito su delle argomentazioni
più poderose, ma semplicemente li ho menzionati en passant, concludendo
il discorso intorno a «quelli del toscanino» per dire che essi non avevano tutti
gli elementi che abbiamo noi oggi per «esaminare ogni cosa e ritenere il bene» e
quindi, se non consideravano il fumo come «peccato», non è perché «mancava loro
la conoscenza biblica», ma perché mancava loro la conoscenza scientifica per
avere una percezione più corretta ed equilibrata del problema. Concordo che
applicare questi testi al fumo in senso stretto non è possibile, almeno finché
non si dimostra che il fumo è peccato e certamente non sono questi testi che lo
dimostrano, anche se, mostrano la via per valutare tutta la questione ed
arrivare ad una definizione di ciò che è bene.
■ Qui apro una parentesi sui «principi generali» e
chiedo: è vero che sono tutti distinti dall’esegesi e frutto di un’applicazione
che non hanno lo stesso valore dell’esegesi? Quanto visto poc’anzi, non mostra
che in certi testi, esiste un principio generale, ribadito da altri brani, di
cui, il testo in questione ne fa ne un uso
particolare? Può un testo particolare che è il frutto
dell’applicazione di un principio più generale diventare la prigione del
principio stesso? È corretto partire da un testo così particolare, per
arrivare a decretarne la sua irrilevanza per altre questioni (es. il fumo), non
menzionate esplicitamente nel testo, ma che possono anch’esse esser regolate dal
principio presente nel testo medesimo? Non si finisce anche così per
decontestualizzare il testo biblico dandogli più peso di quello che ha alla luce
di tutta la Scrittura? Non finisce anche questa per esser esegesi non-corretta e
versettologica? Soprattutto il genere epistolare, usato per affrontare
situazioni particolari mi pare che sia ricco di questi principi, che dal
generale scendono al particolare. L’allegoria è una cosa distinta da tutto
questo, perché, essa da un senso secondario alle parole, sganciato dal loro
senso proprio e naturale. L’allegoria è aprioristica e arbitraria. Qui invece
stiamo parlando di principi generali, rintracciabili nel testo medesimo, e non
frutto di un’applicazione posteriore all’esegesi. Anche il «metodo deduttivo» mi
pare che si distingua sostanzialmente da quanto sto dicendo. L’arbitrarietà del
metodo deduttivo sta nel fatto che il principio generale premesso trova il suo
carattere assoluto strada facendo, attraverso la verifica che le viene dai casi
particolari. Il principio è così un principio arbitrario il quale trova la sua
forza da tutti i casi particolari che gli corrispondono. Nel nostro caso invece,
il principio generale è dato dalla Scrittura e trova il suo carattere di
assoluto nell’autorità della Scrittura, ed è in virtù di ciò, che «dal monte»
scendiamo dove c’è «il popolo» per regolare tutta la realtà. Inoltre,
altra differenza sostanziale è che la Scrittura ci indica anche il
modus operandi per applicare questi principi generali ai casi
particolari, anche diversi. Un profondo conoscitore della Scrittura come
Paolo in un microcosmo di situazioni multiformi come quello gentile e quello
giudeo-gentile della chiesa delle origini: quale campo di ricerca è questo per
esaminare come i principi si possono legittimamente calare nelle situazioni
particolari. È questo che chiedevo nel mio contributo precedente e non mi
riferivo assolutamente ai giudaizzanti. Mi pare dunque che l’applicazione non è
interamente sganciata dall’esegesi, ma in certo qual modo la precede. È
innegabile che la «Scrittura applica la Scrittura». Non c’è bisogno di ricorrere
ai rabbini per sapere come applicare la Scrittura a situazioni particolari!
Credo che il carattere
permanente della Scrittura, quel carattere universale
adatto per ogni tempo e per ogni luogo, faccia parte della sua stessa
natura, oltre che della sua applicazione. Forse non era così «culturale»
l’idea che si erano fatti i nostri antenati diretti nel definire la nostra fede
come una «religione di principi»!
■ Veniamo infine al tuo approccio «biblico» alla
questione fumo. Anche se non lo dici chiaramente, mi pare di capire che, secondo
te, esso rientri nei «problemi culturali» menzionati in Rm 14, «dove si
incontravano e si scontravano due sensibilità religiose e culturali (cibi da
mangiare e giorni da osservare)». Il passo poi per arrivare a 1 Cor 6,12 e 10,23
e all’etica «della libertà e della responsabilità» è breve. Ora, io chiedo: su
quale base possiamo far rientrare la questione fumo in quell’ordine di problemi
affrontati da Rm 14? Cosa c’entrano le riserve religiose dei giudei sui cibi da
mangiare e sui giorni da osservare col fumo? Un raffronto anche veloce della
questione fumo con Rm 14 mostra quanto sia inconsistente questo accostamento. Ad
esempio, il v. 6 dice che sia l’uno che l’altro dei due «schieramenti» fanno
quello che fanno «per il Signore, poiché ringraziano Dio». Devo pensare che chi
fuma, «lo fa per il Signore e ringrazia Dio del fumo»? Non credo che Paolo
vedrebbe molto bene una tal cosa! Rm 14 mi pare più un «etica delle relazioni»,
laddove ci sono differenze culturali e religiose eticamente accettabili, più che
un «etica della libertà» di fare quello che vogliamo, quando non è
«incontrovertibilmente» prescritto dalla Scrittura. Paolo non entra nel merito
della disputa e il suddetto testo nasce solo dall’esigenza di
arbitrare la disputa, affinché non degeneri in azioni che compromettano lo
sviluppo e la diffusione del regno di Dio. Se una convergenza esiste tra Rm 14 e
la questione del fumo è tutta qui: far si, per intenderci che Nicola e Warren
non facciano a pugni, ma si «confrontino» con rispetto. Se poi, vogliamo
approfondire il discorso, Rm 14 sembra troncare le gambe ad ogni disputa
su tali questioni (v. 1). Per cui, anche questa discussione non dovrebbe aver
luogo. Se ne discutiamo è perché non è chiaro in che modo il fumo rientri in
tale brano. Il ragionamento: «rientra qui perché non rientra in nessun’altra
parte della Scrittura» non convince. E poi esiste una differenza sostanziale: il
fumo non è assimilabile alle questioni in gioco in Rm 14. Dare un colpo di
spugna a tale differenza è arbitrario, astrae dal testo senza un evidente
ancoraggio a esso, insomma non è degno della «migliore» esegesi. Certo, anche il
tabacco si può «masticare» e può avere una valenza religiosa come succedeva
presso gli indiani d’America, ma col «problema fumo» noi intendiamo oggi quel
vizio, che con la dipendenza che crea e la sua tossicità, è la
causa dell’80% di tutti i tumori polmonari e del 30% di tutti i tumori in
genere. E qui è importante avere una chiara percezione del problema, per saper
come catalogarlo e dove farlo rientrare. Non è questo un discorso razionalistico
e basta, ma un «esame di quelle cose» che aiutano a precisare ciò che è bene,
perché informano l’esegeta su come applicare il testo biblico. Dice Warren:
«Oggi, è fuori discussione che:
1) il fumo è causa di morte per il 33% di tutti i casi
di tumore, per l’80% dei tumori al polmone, per il 30% delle malattie
cardiovascolari, per il 75% di altre malattie respiratorie.
2) Metà delle persone che fumano moriranno a causa di
questa abitudine e l’altra metà perderà tra i 20 e i 25 anni di aspettativa di
vita. Un giovane che a 25 anni fuma due pacchetti di sigarette al giorno, ha una
speranza di vita di 8 anni più breve rispetto a quella di un non fumatore.
3) Il fumo in Italia uccide 10 volte di più degli
incidenti stradali».
Bisogna definire bene il problema: non si tratta del semplice «abuso di
sostanze» o di un «uso sbagliato di esse» come possono esse definite in certi
casi il cibo, l’alcool, il caffè (vedi anche lo shopping, il gioco, la TV, lo
sport, le cure del corpo ecc.)». Non possiamo omologare il fumo ad altre
sostanze o abitudini che non sono di per sé tossiche, anche se il loro abuso può
creare dipendenza. Bisogna poi anche valutare il grado di dipendenza che una
sostanza crea. Molti paragoni che si fanno oggi, non reggono proprio per il
grado di tossicità e di dipendenza che il fumo crea. Il problema del fumo non è
tanto «il moscerino» quanto il «rinomato cammello» che si vuol «filtrare» come
un moscerino. E questo è un problema nel problema, perché è «fumo negli occhi».
Se poi, gli «americani» usano male certi argomenti, questo non li priva della
loro validità, e non è corretto neppure mischiare gli argomenti, perché tradisce
più un atteggiamento «sulla difensiva» che una seria riflessione sull’argomento
in oggetto. Se si vuol parlare di altre dipendenze si apra un tema a parte. Il
fumo, non è sostanzialmente un problema culturale o religioso. Non è il segno
distintivo di una cultura o di una religione. Può esserlo anche stato e forse
può esserlo ancora in certi posti. Esso però si è affrancato dalle culture dove
può esser nato e si è imposto ad un livello trans-culturale come problema
individuale e problema sociale, che genera tutta una serie di mali e di
problemi, che toccano non solo la vita umana nella sua sacralità davanti a Dio,
ma anche le relazioni interpersonali (cfr. Il fumo passivo e le cause
giudiziarie in corso). Quindi, se il fumo non è
sostanzialmente un problema culturale, come facciamo a omologarlo alle
questioni culturali e religiose di Rm 14? Non c’è qui un arbitrarietà di segno
opposto a quelle denunciate all’indirizzo dei «proibizionisti»? Se il fumo è una
questione che «la Bibbia non tratta», se si considerano le «liste bibliche di
peccati» come esaustive nella loro forma proposizionale, troncando, o, meglio
dire «accorciando» le gambe a ogni generalizzazione ulteriore (che «non è pari
all’esegesi»), allora, perché si commette questa leggerezza e ci si prende
questa licenza (molto arbitraria) di classificare il fumo come un problema
culturale assimilabile a Rm 14? Non ritroviamo qui «l’effetto discarica»? Non è
più corretto e coerente dire: «la Bibbia non tratta questo problema, il comando
“vietato fumare” non compare e quindi non possiamo dire niente da parte di Dio»?
Non possiamo, in nome di una ferrea e «corretta esegesi», cacciare la questione
«fumo» dalle «grandi praterie» della Bibbia e dell’etica, dove, principi
maestosi come cavalli ci danno la dimensione della vera libertà creata da Dio, e
isolarla in delle «riserve» bibliche ed etiche del tipo di Rm 14. Forse è
azzardato definire Rm 14 una sorta di «riserva» dell’etica, ma, come già detto,
mi pare che abbia a che fare anzitutto con la cultura e, di riflesso, con
l’etica delle relazioni nella chiesa. Il problema del fumo invece, ha
principalmente a che fare con l’etica della vita (non solo fisica) e delle
relazioni (anche a prescindere dalla vita della chiesa) e, di riflesso con la
cultura («percezione culturale», identità culturale ecc.). La portata etica del
fumo è più di quanto ne dice Rm 14 e se questo non trova riscontro in un’esegesi
in senso stretto, allora diciamo apertamente che il problema fumo è una macchia
bianca nell’universo di Dio, perché, una tale esegesi, se è coerente con se
stessa, le chiude le porte anche di Rm 14. La Bibbia non è un parco macchine
dove l’esegeta decide arbitrariamente se far entrare i problemi in quella che
chiamo la «ferrari etica» (l’etica vera e propria) e quella che definisco la
«cinquecento etica» (Rm 14). Anche qui si potrebbe creare un «effetto
discarica», una sorta di «parcheggio etico» delle questioni. Sarebbe a questo
punto il caso di toccare 1 Cor 6,12 e 10,23, ma credo che valgano le
considerazioni fatte finora. Poi non mi è molto chiaro cos’è «l’etica della
libertà e della responsabilità». Un altro «parcheggio delle questioni»? Non
voglio essere sarcastico, ma pro-vocatorio nel senso indicato nel sito
«Controcorrente». Ed allora chiedo: perché, prima di «parcheggiare» le
questioni, non sviluppiamo una teologia degli «elementi teologici più rilevanti»
connessi con la questione, e cerchiamo, a tutto campo, nella Scrittura un etica
più aderente a tutti i problemi legati alla questione medesima? Prima di
«ripiegare» su un’etica «della libertà e della responsabilità», perché non
sviluppiamo una «teologia del peccato» e una «teologia del corpo», che ci aiuti
a vedere in che modo ed in che misura il fumo rientra nell’etica
«vera e propria»? Ribadisco che l’argomento esegetico che caccia via la
questione fumo dall’etica «vera e propria» è lo stesso che la caccia via
dall’etica «della libertà e della responsabilità». Non possiamo fare un figlio e
un figliastro. E se partiamo dall’apriori esegetico che rientri nella Scrittura
per quella via «laterale» (pur non essendo quello l’argomento specifico e pur
avendone rilevate le differenze sostanziali con Rm 14 e 1 Cor 6,12; 10,23),
allora chiediamoci onestamente se non possa rientrare dall’ingresso principale
dell’etica.
■ Nella questione fumo, l’ingresso principale di un
etica vera e propria, può essere lastricato dalle domande che seguono, tanto per
cominciare…. Per una teologia del peccato: 1. Le categorie bibliche di
bene e di
male coincidono col concetto di peccato o sono categorie più generali?; 2.
Solo il concetto di peccato richiede una
pena e un giudizio?; 3. In che senso il peccato esisteva prima della
legge (Rm 5,13)?; 4. Su che base Dio ha giudicato e punito il mondo prima della
legge (il diluvio, Sodoma e Gomorra ecc.)?; 5. Qual è la differenza tra
«peccato» e «peccati»?; 6. Le «liste bibliche di peccati» sono esaustive o
indicative?; 7. «Ubriachezze» (Gal 5,21) è un peccato che può essere esteso ad
altro? Per una teologia del corpo: 1. Che ruolo ha il corpo nel piano di
Dio?; 2. Quale dignità Dio assegna al corpo (nella creazione, nella
redenzione, ecc.)?; 3. Come va intesa la «santità» del corpo (2 Ts 5,23)?; 4.
L’unità fondamentale «corpo-anima» con cui la Scrittura definisce l’uomo, in che
misura influisce sul concetto di tale santità?; 5. La sua attuale
collocazione nel regno di Dio, determinata soprattutto dalla presenza dello
Spirito Santo (1 Cor 6,19 cfr. Ef 5,18), in che misura influisce su questo
concetto di santità?; 6. Il suo destino escatologico, determinato soprattutto
dalla risurrezione futura (1 Cor 6,14), in che misura influisce su questo
concetto di santità?
■ In conclusione: il fumo è peccato? Nicola ha avuto il
merito di rendermi più riflessivo su questo e gliene do atto. Mi considero
ancora «in ricerca» e quanto detto va visto soprattutto come un «potare»
l’albero della questione da tutti quegli arbusti che impediscono di cogliere il
frutto di una vera soluzione. Per considerazioni esegetiche e di ordine
razionale, non credo che il fumo sia solo un problema culturale.
Tuttavia, faccio fatica a non pensare che ragioni di tipo personale e culturale
(non solo esegetico) stiano sospingendo la «percezione del problema» in una
direzione diversa che in passato (quello informato e consapevole). Anche se
potrei aver dato l’impressione che non sia a favore di un’esegesi «oggettiva»
con criteri ben definiti, ci tengo a dire (così mi presento) che miei maestri
sono stati, tra gli altri, esegeti come Nicola (per l’AT) e Rinaldo (per il NT),
il mio percorso di studi all’IBEI ha privilegiato soprattutto le materie
bibliche e di un corretto approccio metodologico allo studio della Bibbia e
visto che predico quasi ogni domenica, ogni settimana, nella preparazione del
sermone (che dura mediamente 8-10 ore) sono confrontato con i principi
dell’esegesi. Nel 95 % dei miei sermoni espongo libri della Scrittura che studio
a fondo e tenendo presente tutta la letteratura esegetica di cui dispongo. Di
recente, il Signore mi ha usato per importare nella mia amata Sardegna uno dei
corsi IBEI da me preferiti:
Principi di Ermeneutica. Ed è stato bello vedere come gente «ordinaria»
(anche casalinghe) imparavano ad avere un approccio alla Scrittura più aderente
al testo. Tuttavia, in certo qual modo, diffido di una visione «positivistica»
dell’esegesi, dove la sua tanto decantata oggettività finisce per esser più una
pretesa che una realtà. L’esegesi non è la risposta a tutti i mali della chiesa.
Anche l’esegesi ha il suo grado di soggettività. È l’esegeta che fa esegesi, non
l’esegesi che cala oggettivamente sull’esegeta. L’esegeta spesso è chiamato a
scegliere tra opzioni esegeticamente diverse ed altrettanto sostenibili.
Nell’altro libro che Dio ha scritto, la creazione, fino a poco tempo fa, una
visione meccanicistica e positivistica della realtà, dava alla scienza un senso
di onnipotenza. «Dio non gioca a dadi con l’universo» diceva Einstein a chi
iniziava ad affermare il contrario. «Leggi oggettive governano l’universo e lo
scienziato le può scoprire con metodi altrettanto oggettivi», si diceva. Poi, la
scoperta dei «buchi neri» ha fatto piombare la fisica in una grave crisi,
talché, «J. A. Wheeler, uno dei massimi teorici sull’argomento» ha detto: «È
chiaro ormai che la fisica da sola non spiegherà mai la fisica». [Citato in R.
Frache,
Bibbia – Scienza. Alla ricerca di un equilibrio, (GBU, Roma 1996), p. 16.] E
P. Davies, un altro fisico ha scritto: «Attraverso la scienza noi esseri umani
siamo in grado di afferrare, almeno in parte (corsivo mio), i segreti
della natura». [P. Davies, The mind of God, (Simon and Schuster, New York
1992), p. 173.] La scienza ha scoperto che non può auto-fondarsi. E l’esegesi?
Può auto-fondarsi? I principi sui quali si regge sono principi oggettivi o le
«convenzioni» esegetiche del nostro tempo? Chi fissa tali principi: la ragione,
la teologia cristiana, i rabbini o chi altro? Non voglio tagliare il ramo sul
quale sto seduto insieme a tutti coloro che riallacciano al «Sola Scrittura» dei
Riformatori. L’esegesi e le sue regole devono continuare a essere «vigili» e
«semafori» del «traffico» teologico. E credo di essermi fermato anch’io davanti
al «rosso» e passato col «verde». Ma mi chiedo: questo ramo è l’esegesi o la
dipendenza da Dio? Sicuramente si può rispondere che l’esegesi ci ha restituito
l’Iddio della Bibbia, ma ora che l’abbiamo trovato, non dovremmo dipendere più
da Dio che dall’esegesi? O, per meglio dire, non dovremmo dipendere più da Dio
che dal nostro intelletto, proprio nel fare esegesi? La miglior macchina
esegetica ha sempre bisogno della «benzina» dello Spirito Santo per funzionare e
andare nella direzione giusta. Ecco perché in una rassegna dei principi
dell’ermeneutica non dovrebbe mancare quello più importante: chiedere la guida
del Signore per tutto il percorso esegetico e applicativo. Diceva bene Martin
Lutero: «Come vedi, Davide nel suo salmo summenzionato prega sempre: «Insegnami,
Signore, ammaestrami, dirigimi, mostrami» (SaI 119,26s.33s) e molte altre
simili parole. Benché conoscesse bene il testo di Mosè e tanti altri libri, e li
ascoltasse e leggesse quotidianamente, voleva nondimeno trovare ancora il vero
Maestro della Scrittura, affinché non cadesse nella trappola con l’intelletto e
diventasse suo proprio Maestro. Da questo nascono dei settari, che credono che
la Scrittura sia sottomessa a loro e sia facile da capire con il proprio
intelletto, come se si trattasse di Marcolfo o di favole di Esopo, per i quali
non si ha bisogno di invocare lo Spirito Santo». {2006-2007}
7.
{Nicola Martella} ▲
Apprezzo ancora una volta gli sforzi di Tonino a dialogare e ad affrontare un
tema così complesso con mente analitica e un pizzico di acribia. Qui di seguito
non affronterò tutte le questioni poste e riproposte da Tonino, ma solo alcune
questioni di merito e il tipo di argomentazione.
Il fumo è sia un problema etico, sia un problema
culturale. L’etica cristiana (sarebbe meglio parlare delle «etiche cristiane»,
visto che una stessa cosa può essere percepita e valutata diversamente, come p.
es. l’uso del vino) attinge da chiare indicazioni della Scrittura (p.es. «non
uccidere») o, in mancanza di questi ultimi, da principi generali (p.es. «il
corpo è il tempio dello Spirito Santo» o «ama il tuo prossimo come te
stesso»). Il problema è che gli stessi argomenti che qui gli uni
useranno contro il «fumo», lì li useranno altri contro il «vino» e altrove altri
ancora contro un’altra cosa. Quindi i «principi generali» non sono la stessa
cosa che un «comandamento esplicito». Non si può negare che nell’etica ciò che
si trae dai «principi generali» può avere una forte
connotazione culturale, ad esempio: qui gli uni li userà contro l’uso di
qualcosa (p.es. dei pantaloni da parte delle donne), mentre altrove ciò non è un
problema. C’è addirittura un’interpretazione ideologica dei comandamenti chiari
all’interno delle percezioni etiche, ad esempio, il «non uccidere» per alcuni
cristiani è da riferire solo all’etica interpersonale, per i pacifisti anche
alle guerre e per i vegetariani anche verso gli animali. Quindi è verosimile che
tra i cristiani la cultura generale o la «cultura di nicchia» (del gruppo
particolare), in cui si è inseriti, modifichi l’approccio sia ai «principi
generali» che ai «comandamenti espliciti». A ciò si aggiunga
l’approccio con cui si va alla Scrittura: dogmatico, esegetico, filosofico,
spiritualista, eccetera.
Non sarò io a fare l’apologia del «fumo», essendone
contrario. Userò, però, sempre argomenti veri, onesti, corretti e reali. Perciò,
devo affermare per onestà intellettuale che la Bibbia non affronta in modo
diretto
questo problema (come neppure quello della masturbazione o del suicidio). A chi
mi chiede allora se la Bibbia non abbia da dire nulla su questo tema, risponderò
che esistono dei «principi generali» a cui possiamo attingere. Quando mi
chiederà quali questi siano, devo esercitarmi alla
massima correttezza, evitando di fare una «versettologia» (ognuno si farà la
propria magari contrapposta a quella di un altro), distinguendo le cose
chiare ed evidenti da cose che risultano solo da premesse aprioristiche. Per
questo, poiché il «peccato» è dichiarato l’infrazione di comandamenti chiari
della legge («Il peccato è la violazione della legge»; 1 Gv 3,4), userò
tale concetto correttamente solo per ciò che è chiamato esplicitamente così; poi
c’è anche «l’impurità», distinta dal peccato, ma che oggigiorno è molto
trascurata nell’etica corrente, sebbene sia altrettanto grave per la Scrittura e
con conseguenze strutturali pesanti. Anche qui, però, chiamerò «impurità» solo
ciò che la Scrittura nomina esplicitamente così.
Perciò nel caso del «fumo» preferisco usare — con
onestà e correttezza — solo alcuni «principi generali». Poi metterò in campo
tutti gli argomenti che la scienza, la medicina generale, l’igiene, la
pneumologia, l’oncologia, la statistica, ecc. mi forniscono in modo
incontrovertibile, per convincere che fumare attivamente (e passivamente) fa
male e si reca seri danni al proprio corpo.
Se una persona persiste in un peccato o in un’impurità
che la Bibbia dichiara chiaramente come tali con «comandamenti
espliciti», dopo esortazioni e ammonimenti vari, bisogna mettere fuori
comunione tale credente. Questo non è il caso verso chi erra contro
«principi generali», ad esempio per chi è in sovrappeso o è bulimico; dopo
averlo esortato e ammonito, tutto sta nella sua responsabilità dinanzi al
Signore. Ciò non è un motivo chiaro per escludere qualcuno dalla comunione,
sebbene stia facendo un danno a se stesso; altrimenti ognuno troverà nell’altro
un tale motivo, ad esempio: bere troppo caffè, essere anoressico, permettersi
cose di lusso (arredamento, macchine, viaggi, vacanze), passione per uno sport o
un hobby, tifo per una squadra, appartenenza politica, stile di vita
«alternativo» (vegetarianismo, naturalismo), alcuni mestieri particolari (p.es.
carriera militare o politica, armeria, agenzia del lotto), speculazione
finanziaria in borsa, eccetera.
Leggendo le riflessioni di Tonino, mi è venuta la
sensazione che il gran numero degli argomenti e la lunghezza d’essi debbano in
qualche modo valere per lui come attestazione di veracità. Si taccia l’altro di
soggettivismo e di cose non accertate, poi se ne fa personalmente e
lungamente uso per convincere così che il «fumo» sia chiaramente (?)
«peccato» per la Scrittura.
Sebbene io non sia per il «fumo», non mi sentirei di
accodarmi a dicerie che chi fuma abbia in genere uno
scarso livello di spiritualità o devozione e cose del genere (non credo che
T.P. Rossetti gioirebbe per tale accusa); lo stesso si potrebbe dire per tutte
le altre categorie di cui ho fatto sopra l’elenco. Qui ci vuole più realismo e
correttezza. O per «spiritualità» e «devozione» si intende un certo tipo di
cristianesimo eticamente «stretto» e dottrinalmente tradizionalista?
Una «serena e oggettiva ricerca della verità»,
di cui parla Tonino a proposito della contrapposizione teologia/etica americana
e europea, è quella di dichiarare a priori il «fumo» come «peccato»? Non è anche
questo un «uso
strumentale della questione»?
Strana logica di affermare che la «visione del mondo»
dei cristiani del passato fosse «limitata» rispetto al «fumo»: che
superbia modernistica! (affermiamo ciò proprio noi che spesso insistiamo sulla
guida dello Spirito?). La cosa strana è che sempre di nuovo ci si appella alla
scienza e alla medicina, per argomentare in caso di difficoltà, quando si parte
dall’assunto che «il fumo sia biblicamente peccato». Il punto dev’essere per
coerenza questo: non cercavano anch’essi di piacere al Signore, di farsi guidare
dallo Spirito di Dio e di comportarsi secondo la Parola? Si cita la pratica
della comunità di Casorzo Monferrato e il fatto che, dopo la visita della
lady inglese hanno smesso, senza addurre argomenti verificabili; non è possibile
che tale lady avesse una visione iper-spiritualista, oltre a una forte capacità
di convinzione? (Nota al margine: sorprende che una donna insegni qui a dei
fratelli proprio nell’ambiente dei Fratelli!). Poi si parla della salute di
Teodorico Pietrocola-Rossetti
e a distanza di tanto tempo si ritiene di poter fare una diagnosi sul «si dice»!
(miracolosi mezzi della tecnica moderna). Chi è già malato di tubercolosi
e poi
fuma ed è di buona forchetta a tavola non mi sembra proprio il «caso normale» In
ogni modo Rossetti visse 58 (1825-1883): non
male a quel tempo per uno con tale costellazione di salute e di
predilezioni tabagiste e culinarie; a ciò si aggiunga che è stato uno dei padri
fondatori del movimento dei Fratelli. Comunque, in questo e in altri casi
rispondo con questo motto: «I “per esempio” non sono argomenti validi in un
confronto corretto, ma solo supporti per la tesi».
Sul valore degli esempi, si tenga presente che
essi a un’analisi critica possono risultare addirittura da supporto per
l’antitesi più che per la tesi. Ad esempio, alcuni critici potrebbero
interpretare tali due esempi come un «irrigidimento morale» dell’evangelismo
italiano successivo al Risveglio sotto l’influenza del darbismo e del moralismo
inglese.
Se non si fa un’esegesi corretta (testo nel
contesto letterario, ecc.), ognuno trarrà da singoli versi ciò che gli sarà più
conveniente, per poi retro-proiettarlo in essi (eisegesi) e insegnare che
questo o quel verso affermi qualcosa a proprio arbitrio! Si confonderà anche le
proprie applicazioni di un testo con l’esegesi stessa. Così si apre le porte al
soggettivismo che tanto male ha fatto e fa alle chiese, creando continuamente
«false dottrine» o «dottrine vere a metà». Questa è la tipica via di chi non ha
chiari argomenti biblici. Altro che «principio più generale», che si pretende di
evincere da un testo; confrontando le conclusioni dei cultori della
«versettologia» e della «eisgesi» (proiezione), si vedrà che esse sono spesso
differenti fra loro e addirittura contrapposte! [►
L’interpretazione biblica]
Alcune volte mi sembra che si voglia equilibrare la
mancanza di argomenti chiari con un’argomentazione sofisticata e
sofistica, spesso difficile da seguire perché fatta a scatole cinesi, basata più
su domande che su risposte concrete, più su complicati costrutti e salti mortali
che su un discorso chiaro e lineare… e tutto per rendere più plausibile ciò che
non è immediatamente chiaro ed evidente. È una buona filosofia, ma una pessima
esegesi.
L’argomentazione del grillo che comincia con
argomenti o contro-argomenti biblici (p.es. Rm 14) e poi passa immediatamente ad
argomenti scientifici (p.es. citando Warren), mi stupisce continuamente. Mica mi
devi convincere che il fumo faccia male, visto che sono contrario ad esso
proprio per motivi scientifici (così come la dipendenza da cibo, da gioco,
ecc.). Tonino contesta l’uso (da lui addebitatomi) di Rm 14 — sebbene qui ci sia
molto da dire che solo il suo riduzionismo — ma poi tralascia del tutto
«l’etica della libertà e della responsabilità» (1 Cor 6,12; 10,23 ecc.). [►
L’etica della libertà e della responsabilità] Come mai, visto che
questo è il cuore di tutta la questione? Mi spaventano tutte le parole che
Tonino usa riguardo a Rm 14, che per me non era l’argomento principale. Mi
spaventa anche l’ideologizzazione del «fumo» che risulta dalle molte parole di
Tonino, che quasi l’assurge nell’accesa argomentazione, che fa, a un problema
massimo di teologia ed etica.
La lunga argomentazione a spirale fa perdere il
filo del discordo e fa chiedere a chi legge: «Ma di che parliamo? Della perdita
della salvezza? O di un altro centrale argomento?». Tutto viene risolto con una
mentalità da «parcheggiatore» (ricalcando tale suo argomento) di difficile e
sibillina comprensione! Per capirci qualcosa bisogna riprendere continuamente il
discorso, ma l’effetto non è sempre assicurato.
I due cataloghi di domande sono interessanti (e
finalmente sintetici e chiari!), ma si sa dove arriverà chi ha deciso a priori
che esiste il «peccato del fumo». Ho certamente una risposta a tutte quelle
domande, ma qui si andrebbe ben oltre, visto che non si può semplificare troppo.
Non mi aspettavo un minicorso di esegesi finale.
Comunque, un vero esegeta è colui che mostra tutti i problemi di un
testo, dopo aver verificato la traduzione sull’originale, e le differenti
soluzioni possibili e mostra poi con argomenti validi quale sia la soluzione il
più vicino possibile al pensiero dell’autore originario.
Non mi aspettavo neppure un finale minicorso di
fisica spaziale e di logica con e senza Spirito Santo. Sembra che
Tonino abbia il «dono» di annacquare una semplice argomentazione in un mare
ribollente di parole, a cui chi legge — se non si è già smarrito dieci volte —
dirà: «Che dice? A che serve? Mo’ che c’entra». Oppure di una semplice
argomentazione ne fa un’enciclopedia di temi; è certo un’arguta dote non comune.
È utile ricordare qui la massima: «Sii breve e coinciso (o circonciso), sto
invecchiando».
8.
{Argentino Quintavalle} ▲
■
Fumo per Ebrei?: «Samuele e
Davide, due studenti, sono accaniti fumatori, sanno che questo loro vizio è
guardato con sospetto ma la voglia di fumare non li lascia mai. Decidono allora
di chiedere al rabbino come comportarsi al riguardo. Samuele va, a nome di tutti
e due, e chiede: “Rabbino, rabbino”. “Dimmi Samuele caro, cosa c’è?”. “Rabbino,
io ti volevo chiedere… quando si studia la Torah, si può fumare?”. “Cosa ti è
venuto in mento razza di vizioso che non sei altro? Quando si studia la Torah,
si studia e basta!”.
Samuele torna da Davide come un cane bastonato e gli
racconta della lavata di capo che gli ha fatto il rabbino. “Sai quale è il tuo
problema?”, gli dice Davide, “Tu non sai fare le domande. Lascia che vada io”.
“Rabbino, rabbino ho una domanda da farti”. “Dimmi Davide caro, sono qui per
questo”. “Rabbino… quando si fuma, si può studiare la Torah?”. “Certo Davide
caro! Ogni momento è buono per studiare la Torah!”, esclama il rabbino
entusiasta». {2006-2007}
9. {Nicola
Martella}
▲
Quando Daniela cominciò a frequentarci, abbiamo saputo da lei stessa che fumava.
Non le abbiamo fatto prediche sul fumo, ma il nostro interesse primario era di
farle conoscere la verità dell'Evangelo e Gesù Cristo quale Signore e Salvatore.
Uno dei suoi tratti è stato quello si chiedersi quale fosse la volontà di Dio su
questo o su quello. Abbiamo sempre aspettato che le si accendesse la «lampadina»
su una certa cosa, ne parlasse e ci chiedesse in merito.
Durante il corso di discepolato, che stiamo facendo con i neofiti usando il
libretto «Elementi
della fede: Dottrine fondamentali della fede cristiana», abbiamo
parlato anche dell'etica del corpo. Immancabilmente lei ha chiesto anche
riguardo al fumo. Non abbiamo cercato di usare falsi argomenti sedicentemente
biblici, ma abbiamo messo l'enfasi sulla responsabilità che abbiamo verso il
Signore per il nostro corpo, e cioè non solo per il fumo, ma per tante altre
cose meno appariscenti (abbuffarsi, alzare il gomito, dipendenze varie come da
caffè, da gioco, ecc.). Tutto è finito lì.
Giorni fa, durante tale corso di discepolato, ci ha comunicato con una mina di
soddisfazione e trionfo, di aver definitivamente smesso di fumare. Non potevamo
che congratularci con lei.
Intanto però ci visita regolarmente Alessandro, il quale ha avuto in passato
gravi problemi di dipendenze varie, tra cui il fumo di sigarette è il male
minore. Ora sta sotto cura psicologica e farmacologica. Quando arrivò in sala la
prima volta aveva grandi problemi di concentrazione, a causa degli psicofarmaci,
e a volte aveva certi momenti, in cui la sonnolenza lo sopraffaceva. Appena
finito il culto, usciva fuori per finalmente fumarsi una sigaretta. Con
tutti i problemi che aveva, come cominciare una polemica con lui sul fumo?
Abbiamo cercato di mostrargli l'amore del Signore e di essere indulgenti con
lui. Continuando a frequentarci, ha fatto molti passi in avanti e, ora, è
abbastanza gioioso; ogni tanto porta qualche amica della comunità terapeutica in
cui si trova. Lui c'era alla lezione di discepolato, quando, dopo lo studio
sull'escatologia, Daniela ha affermato di aver smesso di fumare, e qualche
battuta su di lui l'abbiamo fatta, dicendo specialmente che il corpo della
risurrezione non sarà soggetto ai difetti attuali, neppure ai danni del vizio
del fumo. Eppure, subito dopo aver terminato la lezione, scappò fuori ad
accendersi la sigaretta. Daniela e io facemmo ancora qualche battuta sul fumo, e
lui sornione ci rispose a tono, dicendo: «Devo approfittarne adesso, visto che
nell'eternità non si fuma!».
Abbiamo capito che dobbiamo mostrare ancora tanto amore ad Alessandro e che la
scintilla deve partire dalla sua mente. Ho dovuto pensare ai seguenti versi: «Quanto
a colui che è debole nella fede, accoglietelo, ma non per discutere opinioni.
[...] Or noi che siamo forti, dobbiamo sopportare le debolezze dei deboli e non
compiacere a noi stessi» (Rm 14,1; 15,1). Chiaramente non dobbiamo
rinunciare alle nostre opinioni, ma esse non devono essere una specie di «piede
di porco» per scardinare la coscienza altrui. Non vogliamo guardare solo a ciò
che manca ancora, ma a quanto cammino è stato già fatto e com'è positivo lo
sviluppo delle cose; in tutto ciò vogliamo rimanere fiduciosi e speranzosi che
l'evoluzione positiva continuerà. E ciò di là dal fatto se la questione del fumo
si risolverà o meno come vorremmo noi. {16-11-2009}
10. {Sandro
Bertone}
▲
Nota redazionale: Ho ricevuto una notifica di lettura di un
social network cristiano, in cui
due genitori credenti anonimi, scrivono preoccupati, affermando di
trovarsi
in un momento molto brutto,
poiché i loro sospetti si sono concretizzati, quando hanno trovato il figlio di
17 anni che fumava sigarette. Marito e moglie hanno trascorso l'intera giornata
in una grande tristezza. Essi si chiedevano, in qualche modo, dove avevano
sbagliato, visto che di discorsi legati alla fede e all’educazione cristiana al
figlio gliene avevano fatti tanti. Ecco la risposta che ha dato loro questo
lettore, opportunamente corretta e redatta e pubblicata col suo consenso.
Non
conoscendo nessuno dei protagonisti, è davvero difficile dare consigli
opportuni. Ovviamente tutto dipende da molti fattori che hanno determinato la
scelta di fumare nonostante gli avvertimenti (o i divieti, la distinzione è
importante!).
Il primo fattore è costituito dalla famiglia e
dall’ambiente ecclesiale. Nelle famiglie evangeliche il fumo è un male che
supera in classifica molti altri meno visibili. Il fumo si vede e si sente, e
poi lo vedono gli altri; e il «disdoro» ricade sulla famiglia che si preoccupa
più di sé e del suo buon nome che della salute del figlio. Se ad esempio il
figlio mangiasse etti di burro o chili di Nutella, probabilmente non avrebbero
chiesto l’anonimato.
La chiesa in genere è molto attenta e prodiga di
sentenze sul vizio del fumo, ma non s’espone molto quando s tratta di pagare in
nero, senza far fattura, o altri vizi molto comuni...
Ora, l’altro fattore è sicuramente il ragazzo.
Secondo me smetterà, quando verranno a mancare le cause che lo hanno spinto a
iniziare. Ha bisogno di sostegno e d’esempi piuttosto che di riprensione e
divieti.
Io avevo genitori che non fumavano, una sorella che non
ha mai fumato e nessuno mi ha mai colpevolizzato per aver fumato. Questo è stato
di grande aiuto, quando di mia spontanea volontà ho deciso di smettere:
avevo scelto d’essere libero anche dalla schiavitù della sigaretta.
Il fumo è una droga subdola che per mezzo della
dipendenza ti toglie la libertà, ma non ci si libera da una schiavitù
con un’altra schiavitù
(p.es. quella dell’altrui volontà). Ci si libera con un atto di volontà e
comprendendo il senso di ciò che significa gestire la propria vita.
A 17 anni è difficile capire bene! Aiutatelo e non
giudicatelo, non vergognatevi se fuma, ma ditegli che lo amate ugualmente!
Fosse tornato una sera dicendovi: «Sono gay», forse avreste preferito che
fumasse qualche sigaretta, no?
11. {}
▲
12. {}
▲
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Fumo_pecca_MeG.htm
12-04-2007; Aggiornamento: 17-11-2009
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