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1.
{Susi Casta,
ps.} ▲
Una figlia non desiderata
L’altro tema da te proposto [►
Padri con figlie adolescenti] mi tocca molto, perché ho avuto molti problemi con mio padre, problemi che non
si sono mai risolti, se non con la mia decisione di mettere 10.000 km di
distanza geografica, che forse equivale alla distanza di qualsiasi altro nome e
genere che c’è e credo ci sarà sempre fra di noi.
Sono anche mamma,
quindi so benissimo che i bambini non hanno nessuna intenzione di distaccarsi
dai genitori, a meno che non vengano da essi ripetutamente respinti e
maltrattati.
Io sono stata una
figlia non voluta, i miei genitori si sono sposati perché mia madre era incinta,
forse anche grazie alla mentalità cattolica che impedisce l’uso di mezzi di
pianificazione delle nascite. Il fatto è che mio padre non me lo ha mai
perdonato, e non ha mai perso occasione per farmi sapere e ricordarmi, anche
davanti a estranei, che io ero e sono «un errore».
Mio padre non ha mai
neanche accettato che fossi femmina. Prima che nascessi aveva scommesso con
tutti i suoi amici che sarei stata un maschio. Quindi ho fatto del mio meglio
per deluderlo dal primo giorno della mia vita, oltre al fatto che sono arrivata
senza essere stata «richiesta». Ero un doppio errore.
Quando sono nata, per
nascondere il fatto che ero stata concepita prima del matrimonio, sono stata
etichettata come «prematura», e la cosa mi è stata ripetuta per anni.
Sicuramente non lo ero dal punto di vista medico, ma lo ero per le aspettative
dei miei genitori, forzati per causa mia a diventare una coppia sposata.
Quando sono cresciuta,
non sono mai stata accettata neanche fisicamente. Ero «troppo magra»,
soprattutto per i canoni meridionali, d’eredità fascista, secondo cui le donne
devono essere prosperose, altrimenti non sono vere donne.
Ho dovuto scontare la
colpa della mia magrezza sopportando tutte le cure di vitamine, estratti epatici
e iniezioni che mi sono state somministrate per anni, senza peraltro riuscire a
farmi guadagnare neanche un chilo.
Quando sono diventata
adolescente, le cose potevano solo peggiorare e infatti sono peggiorate. Sono
arrivata al limite dell’anoressia, e ho cominciato a usare il digiuno come
un’arma di protesta.
Mio padre mi ha sempre
rinfacciato qualsiasi cosa facesse per me, il cibo che mi dava, i vestiti che mi
comprava, facendomi sentire sempre di troppo. A volte, nella disperazione, gli
ho urlato: «Perché mi hai messo al mondo? Nessuno ti ha costretto, potevi
portare mia madre ad abortire». Molte volte sono stata tentata di suicidarmi o
di scappare di casa.
Mio padre non mi ha
mai fatto un complimento, una lode, anzi ogni scusa era buona per insultarmi,
osteggiare le mie scelte, deridere i miei gusti di qualsiasi genere e
distruggere completamente la mia autostima.
Tutte le mie decisioni
erano sempre sbagliate, qualsiasi fossero. I miei talenti e le mie propensioni
sono stati sempre sistematicamente ignorati. Sono stata mandata forzosamente a
frequentare scuole che non m’interessavano. Mi sono rifugiata nei libri, la mia
unica via d’uscita, la mia unica terapia.
Inutile dire che più
passava il tempo, e più mio padre diventava per me una persona odiosa, da
evitare. Ero invidiosa dei padri delle altre, del padre delle mie cugine, sempre
allegro e giocoso con le figlie, avrei tanto voluto essere nata in un’altra
famiglia.
Ho cominciato a odiare
il genere maschile e a odiare il concetto stesso di padre. Automaticamente,
rifiutavo anche l’idea di Dio come Padre. Lo immaginavo come qualcuno sempre
pronto a cogliermi in fallo, a rimproverarmi qualsiasi scelta, a ostacolarmi in
qualsiasi percorso.
Tuttavia, Dio mi ha
aiutato, si è fatto conoscere da me e mi ha portato avanti, nonostante tutte
queste difficoltà. Dio mi ha anche aiutato a trovare lavoro, proprio il lavoro
che volevo fare, immediatamente dopo la laurea, nonostante le «profezie» paterne
che mi volevano votata al fallimento.
Ho cercato ogni
possibilità per recuperare il rapporto con lui, ma non è stato possibile.
L’ultima volta che gli
ho parlato al telefono, nel 2005, mi ha nuovamente insultato in tutti i modi,
esprimendo tutto il suo disprezzo per me, le mie scelte, la mia vita. Eppure non
ho mai ucciso nessuno, non rubo, non sono una truffatrice, non conduco una vita
immorale, e non ho mai commesso alcuna delle azioni generalmente considerate
riprovevoli dalla società.
Da allora, ho deciso
che io non ho un padre. C’è qualcuno nel mondo che condivide con me DNA, geni e
cromosomi, qualcuno con cui sono stata costretta a trascorrere molti, troppi
giorni da incubo. È tutto ciò che abbiamo in comune.
Non ho nessuna
intenzione di rivederlo e spero che ciò non debba avvenire mai più nella mia
vita. Non avevo bisogno d’un padre così, non ne ho bisogno tuttora e non auguro
a nessuno un padre di questo genere.
2.
{Nicola Martella} ▲
Analisi della dinamica conflittuale
La «via dolorosa» testimoniata da Giusi è un classico esempio di un rapporto
padre-figlia conflittuale, nato male fin nelle attese. Ecco qui di seguito
alcune cause che si evincono.
■ Si è considerati un
«incidente» di percorso e si è ritenuti la causa d’altro. Oppure non si
corrisponde alle attese riposte. Ciò viene ripetuto sempre di nuovo.
■ Grave è anche quando
non si corrisponde al figlio o alla figlia che i genitori volevano avere; ciò
crea, almeno in una certa fase della vita, una confusione nell’identificazione
col proprio genere.
■ Da una parte si
cresce con il vivo desiderio d’essere accettato e apprezzato (attesa); ciò è
importante per accettare se stessi e stimare se stessi. Dall’altra cresce la
rabbia e si cerca il modo di «farla pagare» a chi si ritiene responsabile
(vendetta); allora si cerca di far valere le poche «armi» che si hanno. Certo
con padri maneschi e violenti il tutto si accentua maggiormente; dove non si ha
nessuna chance di trovare un compromesso per sopravvivere o addirittura di
ripagare con la stessa moneta, si vede l’unica possibilità nel mettere
abbastanza chilometri tra se stessi e il padre-padrone.
■ Il conflitto è
programmato… anche perché alcuni padri ritengono di aver fatto il proprio
«dovere», procurando tutto ciò che permette di vivere in modo dignitoso. Ciò
viene ricordato e ribadito di frequente.
■ Può succedere che un
padre diventi (consciamente o meno) geloso del bene dei figli, perché sono e
vivono ciò che essi non sono stati e non hanno avuto. Si istaura un profondo
conflitto che porta a essere «sadici» verso ciò che si dovrebbe amare. «Come si
grida al monte, così esso ti risponde» — prima o poi «l’eco» ritorna con la
stessa violenza e aggressione. Le sponde si allontanano e l’abisso si fa più
profondo.
■ Il confronto con
altri padri e altre famiglie fanno apparire il proprio padre ancora più «orco».
Allora si ritirano tutte le antenne verso il genitore, si mette il fuoco a
minimo, ci si rifugia in un proprio mondo, forse si fanno piani criminosi per
fare fuori il «Leviathan» o almeno si fanno piani per fuggire lontano.
■ Per una ragazza
passare dal «padre odiato» al «genere maschile odiato» il passo può essere
breve. Grave è quando poi tutto ciò viene proiettato su Dio. Qui vediamo una
grande responsabilità, quando si scandalizza i «piccoli» (cfr. Mt 18,6) o si
provoca a ira i propri figli (cfr. Ef 6,4).
■ Che delusione quando
dalla «distanza di sicurezza» che si prende, si cerca di costruire da cristiano
un rapporto nuovo col proprio genitore, ma ciò rende la situazione non migliore,
ma peggiore, per l’insensibilità paterna!
■ Nella Bibbia c’è la
storia del «figlio perduto» (figliol prodigo), ma esistono tante situazioni in
cui c’è il «padre perduto». Tali uomini hanno perso l’occasione di essere
«padri», oltre che procreatori e provveditori di beni materiali. Hanno smarrito
il loro ruolo. Peggio ancora quando in casi particolari perdono anche la dignità
umana e abusano dei figli, seducendoli al male o avviandoli sulla via della
corruzione.
3.
{Nicola
Martella} ▲
Un figlio nel conflitto paterno
La storia di Susi ha molti punti in comune con
la mia storia personale. Nel mio caso sono stato fortunato perché, dopo decenni
di conflitti e di distanza, è stato possibile un riavvicinamento, dovuto anche
al fatto che mio padre è venuto alla fede. Certo non tutti i problemi sono stati
risolti; nella stragrande maggioranza dei casi molte situazioni passate, rimaste
non verbalizzate e chiarite (impresa pressoché impossibile), le ho dovute
ammantare col manto dell’amore, rimettendole nelle mani di Dio. Almeno erano
cambiati alcuni aspetti dell’atteggiamento di mio padre, sebbene il suo
carattere conflittuale era rimasto.
■ Guardando la storia
della sua infanzia (tragica e pesante), la sua vita tribolata in Italia e
lungamente all’estero, la sua grave malattia in tarda età che lo ha portato
ultimamente alla morte — sento un’umana pietà verso di lui.
■ Spesso alla base di
tale rapporto tragico fra padre e figli c’è, infatti, una storia altrettanto
tragica vissuta da tale uomo nella sua stessa infanzia, di cui non si è mai
liberato e che perpetua (coscientemente o meno) verso alcuni membri della sua
famiglia. Da ciò scaturisce un certo modo di guardare il mondo e anche un altro
modo di misurare la vita e i suoi valori.
■ Quello di mettere
tanti chilometri di distanza fra le due parti in causa, è una manovra
ricorrente. Anch’io a 15 anni me ne sono andato via di casa, proprio nell’età
più a rischio e nel momento che avrei avuto bisogno di maggior consiglio e di
guida da parte di qualcuno. Ma tanta era la rabbia e la disperazione. Eppure
anche a tanta distanza la mente ritorna sempre lì. In un conflitto parentale non
risolto, sempre «la lingua batte dove il dente duole».
■ In certi momenti ho
ringraziato Dio che ha mostrato la sua grazia proprio a mio padre, un uomo con
un carattere così difficile e pieno di conflittualità. La grazia di Dio non
dipende dalla qualità delle persone! Certo Dio ha usato anche la sua disciplina
nella vita di mio padre.
■ In certi momenti ho
sentito una grande misericordia per l’esistenza vissuta da mio padre. Non avrei
voluto cambiare con lui. Chi è stato un «cane bastonato» fin dalla sua infanzia,
perpetua nella sua vita (consciamente o inconsciamente) canoni simili, magari
nonostante tutti i sani principi, le buone intenzioni e gli sforzi per fare
meglio.
■ Ammetto che ancora
oggigiorno, in certi momenti, sento ancora una certa «rabbia» segreta e mi
accorgo come sto ancora rimproverandogli di non essere stato presente nella mia
vita, quando avevo bisogno di un padre che mi ascoltasse, che mi consigliasse in
momenti cruciali della mia vita e mi incoraggiasse in momenti particolari.
■ Anch’io ho vissuto
mio padre come una presenza conflittuale; perciò ho evitato di stare a lungo con
lui. Ritirarmi dalla fonte del conflitto, anche rinunciando al mio diritto, è
stata una costante nella mia vita. Anch’io ho vissuto, per il resto, mio padre
come una persona perlopiù assente e che non ha manifestato un grande interesse
per me, la mia vita e il mio mondo; certo questa è stata una percezione
soggettiva. Egli subiva il suo mondo e tutto era già pesante per lui,
perché fonte di conflitto perenne; come poteva mai occuparsi del mio, che era un
altro «pianeta»?
■ Ora non c’è più.
Tante cose sono rimaste non dette. Sento tanta pietà per lui. Qualche sentimento
ambivalente necessita ancora di guarigione divina. In fin dei conti l’ho
perdonato, sebbene rimanga l’infelicità che le cose non siano andate
diversamente. Quello che resta sono le cicatrici di decenni di ferite. Al
riguardo c’è bisogno del balsamo soave del Signore.
■ Essere dovuto
diventare «padre» senza aver avuto al riguardo un modello positivo, è stata per
me un’impresa alquanto gravosa e difficile. Il proposito che non avrei fatto
come mio padre non risolveva il mio deficit al riguardo. Chi non sbaglia così,
sbaglia diversamente. Mi sono dovuto cercare altri modelli; mi ha aiutato
specialmente quello del «Padre celeste». Tante volte ho fallito verso me stesso
come «padre» e verso i miei figli; con la grazia di Dio ho ripreso il cammino.
L’opera non è ancora conclusa.
4.
{Susi Casta,
ps.} ▲
Caro Nicola, volevo dire che ho letto le tue riflessioni, assolutamente
corrette: mio padre ha avuto a sua volta un padre assolutamente terrificante,
forse persino peggio di lui, un nonno di cui ho un pessimo ricordo, che mi
voleva tanto bene da soprannominarmi «morte volante» per la mia magrezza, che a
volte voleva picchiare me e mio fratello con il bastone (era claudicante) senza
nessun motivo, ecc.
Mio padre non ha mai parlato della sua infanzia,
immagino debba essere stata tremenda. Credo che in parte abbia riversato le sue
cattive esperienze su di noi, in parte non aveva idea di come comportarsi, e
come hai giustamente sottolineato, era «invidioso» di noi e della nostra giovane
età e ha fatto di tutto, per quanto ha potuto, per rovinarci l’infanzia come
forse è stata rovinata la sua.
Non è una spiegazione completamente sufficiente a
spiegare il tutto, perché suo fratello e sua sorella sono completamente diversi.
Forse il fatto che fosse primogenito ha pesato maggiormente. Comunque sia, anche
io provo pietà per lui, a volte, ma anche e ancora, purtroppo, tanta rabbia.
Spero che Dio un giorno mi liberi dei sentimenti negativi. Per il momento ho
bisogno di vivere a distanza, sperando che serva in qualche modo.
Grazie per aver condiviso i tuoi pensieri e la tua
esperienza sul sito.
5.
{Nicola
Martella} ▲
I primogeniti sono particolarmente segnati dalla personalità e dagli
eventi paterni, poiché su di loro maggiore sono le attese e la pressione dei
loro genitori.
A un comportamento patogeno di un padre si reagisce in
diversi modi, ad esempio come segue: ▪ 1) Ci si ripromette che non si farà mai
così come lui; alcuni sbagliano poi magari con i loro figli poi per i motivi
opposti. ▪ 2) Altri subiscono in differenti modi tutto ciò (chi passivamente,
chi in contrasto), ma mettono abbastanza presto una certa distanza verso il
genitore, e cioè prima psicologica (sfiducia primordiale, sospetto primordiale),
poi materiale (tanti chilometri) o sociale (pochi contatti sebbene si abiti a
poca distanza). ▪ 3) Altri ancora perpetuano verso i propri figli gli stessi
canoni del genitore, conoscendo solo quello come modello di riferimento (un
padre-padrone produce l’humus per altri padri-padrone).
Ecco perché diversi figli nella stessa situazione
producono comportamenti e reazioni differenti. Poi ogni figlio ha un’indole
differente, si trova in una rapporto diverso rispetto al genitore (anche a
seconda della sequenza tra i figli e il genere d’appartenenza) e gli viene
richiesto un carico differente (maggiore per il primogenito, minore per
l’ultimogenito), eccetera.
Molti padri vogliono dare ai figli tutto ciò che essi
stessi non hanno avuto. Altri, che hanno avuto un’infanzia difficile e sono
stati trattati come «cani bastonati», non sono mai riusciti a elaborare il loro
passato e, pieni di rimpianto, seguono (spesso inconsciamente) una manovra
psicologica strana: se razionalmente concepiscono la ricerca del bene della
prole, nell’inconscio nutrono effettivamente una «invidia primordiale» per il
bene degli altri (anche dei figli), che a lui è stato impedito.
In casi particolari e patologici, alcuni padri vivono
il rapporto verso una figlia in modo ambivalente: quando la figlia è ancora in
tenera età, il padre è attratto fisicamente da lei; perciò diventa duro verso di
lei per paura di cadere nell’incesto, credendo così di scongiurarlo. È probabile
che in diversi casi i conflitti dipendano da ciò.
6.
{Stefano
Frascaro} ▲
L’apostolo Paolo ci ricorda in Romani 16,27 chi è l’unico veramente saggio. Come
possiamo allora, noi imperfetti, sperare d’essere «saggi» nel modo in cui ci
relazioniamo e ragioniamo con i nostri figli?
Sono padre di due figli, uno di diciassette e uno di 13
anni. I miei problemi li sto incontrando ora con il ragazzo più grande. Voglio
chiarire subito che sono veramente grato a Dio per come è mio figlio. È un bravo
ragazzo, ha accettato Cristo come personale Salvatore, aiuta abbastanza in casa
ma... ha 17 anni! Che età critica che è, e specialmente come è diversa dai
nostri diciassette anni d’allora!
Chiaramente ora lui reclama quelli che chiama «suoi
diritti», ovvero poter uscire la sera, pretendere d’avere massima libertà nelle
amicizie, nel suo modo d’essere e pone il tutto in quel «ma tu non ti fidi di
me!» che ti fa riflettere. Ma è vero che non mi fido di lui?
Come posso spiegare a lui che significa avere un
figlio? Come è possibile spiegare a un ragazzo che «reclama i suoi diritti» la
paura d’un genitore?
Mi viene in mente il Salmo 22,10 che recita: «A te
fui affidato fin dalla mia nascita...».
E rifletto che io ho affidato a Dio i miei figli e la
mia vita. Come posso avere allora paura? Posso riportare queste mie ansie in una
mancanza di fede?
Mi ricordo, e mio figlio le sa queste cose, delle mie
lotte politiche fatte alla sua età, le volte che mi buttavo a testa bassa contro
dei cortei, delle volte che rientravo in casa di notte, senza farmi vedere, con
i lividi sul corpo. E mi ricordo delle volte che andavo ai concerti, delle volte
che andavo alle occupazioni, delle volte che nella scuola ero indicato come una
«testa calda». E allora penso, che diritto ho di dire a mio figlio: «No, tu non
puoi fare queste esperienze perché ho paura».
Provo a mettergli davanti la Parola, ma lui mi reagisce
dicendo: «Tu le tue esperienze però le hai fatte!». E come posso dirgli: «Ho
paura per te?».
Una volta, una di quelle rare volte che siamo riusciti
a parlare, mi ha detto: «Guarda papà, che alla mia età ho già sofferto come un
adulto, io alla vita ho già dato la mia parte di sofferenza, ora voglio la mia
parte». E come posso dargli torto? Ha perso la madre a nove anni vedendo tutto
il suo percorso doloroso nella malattia, ha visto l’angoscia d’un fratello con
un tumore al cervello, ha rischiato di morire per una peritonite, ha vissuto il
mio tracollo economico... come posso dargli torto?
Ma è proprio per questo!
Come si può far capire a un figlio la paura d’un padre
che ha passato quanto di peggio penso che possa capitare a un padre, come posso
dirgli la paura che si ha nel momento in cui un tuo figlio è in sala operatoria
per nove ore per un tumore alla testa, o quando questo piccolo grande uomo mi
stringeva la mano di notte, prima d’entrare in sala operatoria, sotto lo sguardo
sommesso d’un chirurgo che m’implorava di lasciarlo andare, come posso dire
dello sguardo che aveva e della promessa che gli feci: «Fintantoché Dio non
vorrà, non t’abbandonerò».
Come posso fargli capire che sì, ho fatto quello che
non voglio che lui faccia, ma i tempi erano diversi. Non s’uccideva per un
orologio, non si sparava come tirare un sasso. La droga girava anche allora, ma
non era così subdolamente introdotta.
Io ho affidato mio figlio a Dio, e so che Dio lo
proteggerà «Poiché egli ha posto in me il suo affetto, io lo salverò, lo
proteggerò, perché conosce il mio nome» (Sa 91,14).
Volevo iniziare questo capoverso con un «Però
Signore...», poi mi sono accorto che stavo ponendo una condizione a Lui...
No, senza però. Io ho affidato mio figlio a Dio, e so
che Dio lo proteggerà: «Poiché egli ha posto in me il suo affetto, io lo
salverò, lo proteggerò, perché conosce il mio nome».
Ci credo. Farò mio questo versetto e pregherò Dio che
le prove, che mi manderà, siano sempre sopportabili, ma specialmente chiedo a
Dio quella saggezza che sicuramente in questo momento mi manca.
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