(I contributi
rispecchiano le opinioni personali degli autori.
Nota redazionale: L'autrice di questo contributo prende posizione
riguardo a un pensiero espresso precedentemente da Gaetano Nunnari in uno dei
suoi
interventi. Ora segue il contributo di Rosa.
Desidero dire qualcosa a proposito d’un pensiero espresso da Gaetano in uno dei
suoi interventi. Egli dice: «Il concetto di grazia nel calvinismo, a mio avviso,
rende la grazia di Dio ancora più immeritata e in qualche modo più speciale per
i suoi riscattati».
Io non sarei capace di condividere questo
compiacimento: un favore, un dono, per me e per tanti altri, è veramente gradito
quando viene da una persona amata. Un dono che viene da una persona che non amo
potrei accettarlo per cortesia, o per bisogno; ma, a livello di relazione umana,
non mi darebbe la stessa gioia. Ciò che suscita in me la simpatia è soprattutto
la generosità della persona: una generosità oculata e avveduta, rivolta a chi ha
bisogno, soccorrevole e capace di sacrificio personale. Non mi va l’idea d’un
Dio che ha deciso dall’eternità di salvare solo una parte di quest’umanità
altrimenti destinata alla dannazione (perché tutta ugualmente colpevole e
meritevole dell’eterno castigo), dal momento che potrebbe salvarla tutta con la
sua «grazia irresistibile». In termini giuridici questo si chiama «omissione di
soccorso», e la norma che prescrive il dovere di soccorrere chi è in stato di
grave necessità, è una forma d’indiscutibile progresso umano e sociale. Non può
essere la religione a cancellare un valore che è sentito dal cuore umano fin dai
suoi primordi e che è stato sancito da un progresso civile secolare e
universalmente riconosciuto. Prima d’essere una norma di diritto, il soccorso
agli altri è il primo dovere del cristiano, ed è un’esigenza interiore così
fondamentale da essere avvertito, e spesso assai profondamente, anche dagli
atei. La fede si realizza nella carità (Galati 5,6), e chi ha soltanto la fede,
se non ha la carità, non è nulla (1 Corinzi 13,2). Gesù ci chiede addirittura
d’amare anche i nostri nemici, di pregare per coloro che ci perseguitano (Matteo
5,44). Ci dice che in questo modo saremo figli del Padre nostro che è nei cieli,
che fa piovere sui buoni e sui cattivi (Matteo 5,45)
La Genesi dice che Dio ci ha fatti a sua immagine. Il
peccato ha guastato in noi l’immagine divina e noi dobbiamo ricostituirla con
l’aiuto di Gesù. Come è possibile desiderare veramente, dal profondo del nostro
cuore, di diventare simili a questo Dio mediante la carità, se chi parla di lui
con apparente competenza biblica gli attribuisce una crudele indifferenza verso
la sorte eterna d’una parte degli esseri umani? Non voglio prescrivere a Dio ciò
che deve fare. Sono convinta che non è questo il suo modo di procedere e che
attribuire a Dio un simile comportamento costituisce una orribile bestemmia.
Prima di me lo ha già scritto il pastore Geoffrey Allen e io non ho mai sentito
cosa più giusta. E mi chiedo come si fa a gioire veramente della nascita dei
nostri figli, se si pensa che Dio potrebbe averli esclusi dalla sua grazia fin
dall’eternità.
2.
{Nicola Martella}
▲
Il
contributo di Rosa Fidelis contiene vari spunti di riflessione. Lascio agli
altri di intervenire. Sebbene Dio abbia, a prescindere da tutto, il diritto di
scegliere alcuni e destinarli a salvezza e di lasciare altri nella perdizione,
la Scrittura ci convince che Egli non ha fatto uso di tale sua prerogativa
divina, ma ha amato il «mondo» e il suo proposito è la salvezza di tutti gli
uomini (Gv 3,16; 1 Tm 2,4). Vorrei prendere posizione, però, solo su un punto,
quando ella afferma: «Il peccato ha guastato in noi l’immagine divina e noi
dobbiamo ricostituirla con l’aiuto di Gesù».
■ Immagine di Dio e peccato: Una ricerca nella
Bibbia mostra come risultato che l’espressione «immagine di Dio» non è mai messa
in collegamento contrastante con peccato, trasgressione, iniquità, empietà e
derivati. Essa non è qualcosa che si può acquisire o perdere, ma è
ontologicamente il suo stato nei confronti della creazione e di Dio. Infatti,
l’immagine divina è la «specie» secondo cui Dio ha creati gli uomini ed ha fatto
di loro «sua discendenza» (At 17,28s). Ciò permette agli uomini di comunicare
con Lui — che siano essi trasgressori (Adamo ed Eva, Gn 2s; Caino, Gn 3), ebrei
(cfr. Abramo, Gn 19; Hagar, Gn 21; Isacco, Gn 26; Giacobbe, Gn 28; Saulo, At
9,4), cristiani (cfr. Anania, At 9,10ss; Pietro, At 10,9ss) o pagani (cfr.
Abimelek, Gn 20,3; Balaam, Nu 22,9) — quando Egli si manifesta loro. Sia nel Sal
8 si afferma che Dio ha fatto l’uomo «poco minore di Dio» e l’ha «coronato
di gloria e d’onore» (v. 5); e nel NT si afferma che l’uomo è l’immagine di
Dio (Gcm 3,9). Si tratta infatti della specie d’appartenenza.
Per l’approfondimento cfr. Nicola Martella,
Esegesi delle origini.
Le Origini (Punto°A°Croce, Roma 2006), pp. 76ss. Cfr. in
Nicola Martella,
Temi delle origini.
Le Origini (Punto°A°Croce, Roma 2006), gli articoli: «L’uomo quale immagine
di Dio», pp. 134-145; «Immagine di Dio e dominio della terra», pp. 146-163.
■ Ricostituirla con l’aiuto di Gesù?: In senso
ontologico l’uomo è e rimane «immagine di Dio». In senso spirituale, l’uomo non
può ricostruire in sé tale immagine, neppure con l’aiuto di Gesù. Spiritualmente
parlando, Dio ha dato Cristo quale gloriosa «immagine di Dio» del nuovo mondo (2
Cor 4,4; Col 1,15). Predicare Gesù quale Messia significa mettere davanti agli
uomini tale modello di «uomo nuovo», che verrà raggiunto dai credenti come
caparra nella rigenerazione (o nascita dall’alto, ossia da Dio) e
ontologicamente con la risurrezione della carne.
L’uomo non può ricostruire in sé tale immagine, ma come
rese chiaro Gesù a Nicodemo: «Se uno non è nato dall’alto, non può vedere il
regno di Dio» (Gv 3,3.7; 1,13). Solo chi ha sperimentato tale rigenerazione
spirituale mediante lo Spirito Santo, può svestire il «vecchio uomo», mediante
la santificazione, e — mediante il rinnovamento nello «spirito della vostra
mente» — può «rivestire l’uomo nuovo che è creato all’immagine di Dio
nella giustizia e nella santità che procedono dalla verità» (Ef 4,22ss).
È l’illusione dell’umanesimo cristianizzato quello di
credere che l’uomo possa migliorarsi e contribuire alla sua salvezza. Il metodo
biblico è la rigenerazione mediante lo Spirito di chiunque crede in Gesù
quale Messia.
Lo spartiacque è questo: «Chi crede nel Figlio, ha
vita eterna; ma chi rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di
Dio resta sopra lui» (Gv 3,36; 1 Gv 5,12). Qui non c’è spazio per migliorie
e aggiustamenti.
3.
{Gaetano Nunnari}
▲
Vorrei nuovamente precisare che l’argomento da me proposto non riguarda il
calvinismo in generale. Come già detto non condivido assolutamente la teoria del
patto unico, il battesimo dei bambini e nemmeno l’amillenarismo. La questione da
me posta riguarda esclusivamente il concetto d’elezione dei salvati. Prendo
anche le distanze da tutti coloro che perentoriamente non accettano il dialogo
pretendendo a priori d’essere nel giusto. Come detto e lo ripeto io non mi
riconosco nell’ideologia riformata. Tuttavia il concetto di predestinazione è
complesso e per quanto mi riguarda non è da escludere a priori. Replico dunque
al pensiero di Rosa.
Rosa afferma: «Io non sarei capace di condividere
questo compiacimento: un favore, un dono, per me e per tanti altri, è veramente
gradito quando viene da una persona amata. Un dono che viene da una persona che
non amo potrei accettarlo per cortesia, o per bisogno; ma, a livello di
relazione umana, non mi darebbe la stessa gioia.
Qui Rosa parte dalla sua personale opinione,
riflettendola poi su Dio. «Io non sarei capace di...» non è un modo per spiegare
biblicamente la propria opinione sull’elezione. Io voglio basarmi solo su ciò
che la Bibbia afferma in proposito. A tale riguardo anche l’apostolo Paolo non
riesce più a dare una risposta valida al raziocinio umano, e afferma: «Che
diremo dunque? Vi è forse ingiustizia in Dio? No di certo! Poiché egli dice a
Mosè: “Io avrò misericordia di chi avrò
misericordia e avrò compassione di chi avrò compassione”. Non dipende
dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia… La
Scrittura infatti dice al faraone: “Per
questo ti ho suscitato: per mostrare in te
la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato per tutta la terra”.
Così dunque egli fa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole. Tu allora mi
dirai: “Perché rimprovera egli ancora? Poiché chi può resistere alla sua
volontà?”. Piuttosto, o uomo, chi sei tu che replichi a Dio? La cosa plasmata
dirà forse a colui che la plasmò: “Perché mi hai fatta così?”. Il vasaio non è
forse padrone dell’argilla per trarre dalla stessa pasta un vaso per uso nobile
e un altro per uso ignobile? Che c’è da contestare se Dio, volendo manifestare
la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza dei
vasi d’ira preparati per la perdizione, e ciò per far conoscere la ricchezza
della sua gloria verso dei vasi di misericordia che aveva già prima preparati
per la gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamato non soltanto fra i Giudei
ma anche fra gli stranieri?» (Rm 9,14-24).
Non siamo noi a doverci quindi creare l’idea che più ci
piace di Dio. Ma prendere atto di ciò che Lui ci ha trasmesso nella sua Parola.
Per quanto riguarda il fatto che Rosa preferisce
ricevere un dono da una persona che ama piuttosto che da qualcuno che non ama,
la Bibbia mostra che è sempre Dio a fare il primo passo verso la sua creatura
che ha peccato. «Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a
suo tempo, è morto per gli empi» (Romani 5,6).
«Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre,
che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». E ancora: «Non
siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi».
Con queste affermazioni mi sembra anche difficile
affermare come ha detto Nicola che Dio non ha fatto uso di questa sua
prerogativa. I passi di Giovanni 3,16 e 1 Tm 3,4. Quel «tutti» può anche essere
interpretato in senso relativo. Non ho detto che sia così, ma potrebbe anche
essere.
Il passo spartiacque che Nicola ha citato è: «Chi
crede nel Figlio, ha vita eterna; ma chi rifiuta di credere al Figlio non vedrà
la vita, ma l’ira di Dio resta sopra lui» (Gv 3,36; 1 Gv 5,12). Una persona
faziosa replicherebbe che chi rifiuta di credere non è stato scelto da Dio. Non
è una sua pecora. Il solo fatto di credere è il segno della predestinazione di
Dio nei suoi confronti.
Io non sono di parte. Mi piacerebbe in ogni modo (se
umanamente possibile) tracciare il confine tra quanto dipende da noi e quanto da
Dio.
4.
{Nicola Martella}
▲
Vorrei fare alcune osservazioni al contributo precedente. È tipico del metodo
dogmatico l’accumulo di versi, sradicati dal loro contesto naturale. Anche
Gaetano non ne è (ancora) immune. Abbiamo già ribadito che certe verità bibliche
su Dio e la realtà si possono comprendere solo in modo «polare», ossia mostrando
i due poli della questione (p.es. giustizia e misericordia; verità e amore),
senza fatali scorciatoie verso una polarizzazione o sofisticate sintesi
dialettiche.
Accesso alla verità solo in modo polare
Abbiamo già ribadito che Dio nella sua sovranità ha
tutto il diritto di scegliere chi vuole, di innalzare o abbassare, creare o
distruggere. Ha quindi anche la libertà e il diritto di salvare o perdere. Qui
si attivano le malsane scorciatoie dogmatiche della «doppia predestinazione»
(Dio ha (pre)destinato gli uni a salvezza e gli altri a perdizione) e
dell’universalismo (Dio alla fine salverà tutti). Per evitare tali scorciatoie
dogmatiche e razionalistiche, bisogna lavorare qui esegeticamente! Allora si
scoprirà che esiste qui una «verità polare»: da una parte, il diritto di Dio
(libertà, sovranità) e, dall’altra, la sua volontà di salvare tutti gli uomini,
avendo riconciliato con sé in Cristo ogni cosa. Qui fare una scelta
discriminante per la tesi o l’antitesi oppure creare un’artificiosa sintesi
porta a risultati ideologici «affascinanti» o a dogmi facili e «coerenti», ma
significa anche non cogliere l’intera realtà della questione, che si può
comprendere solo in modo polare; ciò significa altresì la superbia di non
lasciare l’ultimo mistero in Dio e l’ultima parola a Lui.
Il gioco della decontestualizzazione
Gaetano cita Rm 9,14-24, riportando la risposta
di Paolo, ma dimentica la domanda e altresì, decontestualizzando il tutto, lo
pone su un piano universale, dimenticando la contingenza storica specifica. La
domanda che bruciava nel cuore dei credenti romani, in gran parte giudei (Rm
16), è perché proprio il popolo eletto (Israele), detentore di adozione, patti,
promesse, culto legittimo e quant’altro (Rm 9,1-5), abbia così miseramente
fallito riguardo a Gesù, sebbene come Messia sia provenuto «secondo la carne»
proprio da loro (v. 5).
Avremo modo di approfondire separatamente l’intera
questione in Rm 9, mostrando qui solo il ragionamento complessivo. Proprio
Israele, il popolo eletto da Dio per attuare il suo piano salvifico nella storia
e che aveva tutte le carte storiche e teologiche in regola per farlo (vv. 4s),
non ha ottenuto la «giustizia di Dio». Ciò è avvenuto per due motivi
concatenati: Israele nel suo complesso ha cercato di ottenere la giustizia per
opere e ha rifiutato Gesù quale Messia (v. 31ss; cfr. Gv 8); in tal modo si sono
sottratti alla «giustizia di Dio» e quindi la salvezza (Rm 10,3), non
riconoscendo la cesura storica e salvifica: «Il termine della legge è Cristo,
per esser giustizia a ognuno che crede» (v. 4). Al contrario, i Gentili —
che popolo eletto non erano e non cercavano la giustizia — hanno ottenuto la
«giustizia che viene dalla fede»! (v. 30).
Per trarre, quindi, un bilancio di Rm 9, bisogna
asserire la validità della «verità polare»: l’elezione insindacabile di Dio
verso Israele non ha protetto gli Israeliti nel loro complesso a fallire
storicamente e teologicamente, quando hanno cercato di essere giustificati per
le proprie opere giuste e hanno rifiutato Gesù quale Messia-Re e perciò la
«giustizia di Dio» che si ha per grazia mediante la fede. L’elezione rappresenta
il piano salvifico di Dio nella storia, ma non funziona automaticamente, se il
singolo non lo accetta e non vi aderisce per fede, entrando personalmente nel
nuovo patto.
Al riguardo non si dimentichi che fin dall’inizio
l’elezione divina perseguiva sempre uno scopo strumentale: il raggiungimento con
la salvezza e la benedizione di coloro che non erano stati eletti, anzi di tutte
le famiglie della terra (Gn 12,3 Abramo; 28,14 Giacobbe; cfr. Sal 22,27).
La generalizzazione di fatti contingenti
Questo è un altro modo di cui si servono le filosofie
dogmatiche: brani di Gesù circoscritti alla contingenza vengono generalizzati e
resi universali.
■ Così si cita questo brano: «Nessuno può venire a
me se non lo attira il Padre, che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo
giorno», non menzionando neppure che si trova in Gv 6,44.65. Si
dimentica qui la polemica di Gesù con i Giudei che lo rifiutavano come Messia,
ma che lo cercavano come «profeta (o re) di comodo» per sfamarsi. Gesù li
scandalizzò e lo fece anche con suoi seguaci e i suoi dodici discepoli,
chiedendo loro, dopo che «molti dei suoi discepoli si ritrassero indietro e
non andavano più con lui»: «Non ve ne volete andare anche voi?» (vv.
66s). È scritto che Gesù disse loro: «“Fra voi ve ne sono alcuni che non
credono”. Poiché Gesù sapeva fin da principio chi erano quelli che non
credevano, e chi era colui che lo tradirebbe» (v. 64). Lo spartiacque viene
mostrato da Pietro, che risponde alla domanda di Gesù: «Signore, a chi ce ne
andremmo noi? Tu hai parole di vita eterna;
69e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio»
(vv. 68ss), ossia il Messia. E proprio riguardo a «colui che lo tradirebbe»
Gesù «diceva: “Per questo v’ho detto che nessuno può venire a me, se non gli
è dato dal Padre”» (vv. 64s). E concludeva: «Non ho io scelto voi dodici?
Eppure, un di voi è un diavolo» (v. 70). Come si vede l’elezione di Giuda da
parte di Gesù tra i dodici, non impedì a tale discepolo di fallire e di tradire
il suo Maestro! (v. 71).
■ La stessa cosa vale per l’altro verso: «Non siete
voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi», che si trova in
Gv 15,16, prosegue dicendo: «e v’ho costituiti perché andiate e portiate
frutto…». Anche qui non si parla primariamente di salvezza ma dell’elezione
strumentale dei discepoli. Qui parlava probabilmente solo agli undici, poiché
Giuda era già uscito dalla cerchia dei commensali (Gv 13,30). Il brano di Gv 15
parla della scelta storica di vedere in Gesù il Messia promesso e la «vite»
(termine usato dai profeti per Israele). Undici dei discepoli decisero di
dimorare in lui (v. 4), mentre Giuda (oltre al giudaismo nel suo complesso; v.
24) avevano deciso di scegliere una via arbitraria ma infruttuosa (cfr. v. 6).
Di per sé anche Giuda, come abbiamo visto, era stato scelto da Gesù, ma non
dimorò in Lui.
■ Questa stesa dinamica si trova in Gv 17 (che
non è una «preghiera sacerdotale» per i motivi di Eb 7,14). I discepoli e futuri
apostoli furono così descritti: «Io ho manifestato il tuo nome agli uomini
che tu m’hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno
osservato la tua parola» (v. 6). Essi avevano riconosciuto la provenienza di
Gesù quale Messia e il suo ruolo storico-salvifico (vv. 7s). Essi sono al centro
delle attenzioni, della preghiera e delle richieste di Gesù al Padre in
prossimità della sua dipartenza (vv. 9-12a.15ss.24). Gesù contrappose tali
apostoli da Giuda: «Quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e
nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione» (v. 12b). Poi
aggiunse: «Io non prego soltanto per questi [= apostoli], ma anche per quelli
che credono in me per mezzo della loro parola» (v. 20).
Come si vede, la contestualizzazione dei brani e la
loro corretta esegesi sono la migliore medicina contro le generalizzazioni
ideologiche delle filosofie dogmatiche, che risiedono abbastanza sottocute a
molti cristiani, ne siano coscienti o meno.
In tal modo si combatte anche l’altra «mala bestia» —
usata dallo stesso Gaetano — la relativizzazione dei dati: in Gv 3,16 e «chiunque
crede» sarebbero solo gli eletti (!) e similmente in 1 Tm 3,4 «tutti
gli uomini» sarebbero solo il «numero chiuso» o, per così dire, i «144.000»
della dogmatica calvinista! Strana logica!
■ Infine arriviamo alla «faziosità», di cui Gaetano si
fa avvocato, riguardo a Gv 3,36; 1 Gv 5,12. Che strana logica di una
filosofia dogmatica che non tiene conto della contingenza storica e teologica,
in cui le parole sono state dette: Gesù era stato rifiutato dai Giudei come
Messia-Re (cfr. v. 19). Gv 3 non parla di elezione, ma di nascita dall’alto (o
rigenerazione mediante lo Spirito di Dio) in contrasto con la «giustizia per
opere» perseguita dal giudaismo, di cui Nicodemo era esponente. Giovanni
Battista è il primo testimone di una scelta a favore di Gesù quale Messia,
proceduto da Dio come suo Figlio (v. 35), per questo il v. 36 è preceduto dalla
sua scelta netta (vv. 28-35). Il v. 36 era la scelta dinanzi alla quale Giovanni
Battista metteva i suoi contemporanei giudei, appartenenti già al popolo eletto
(!), che venivano a lui per farsi battezzare (v. 23). I Giudei battezzavano gli
impuri Gentili, mentre Giovanni battezzava gli impuri Giudei in vista
dell’avvento del Messia e del suo regno!
Replicando ancora alle faziosità della filosofia
dogmatica, aggiungiamo anche quanto segue, che è di carattere logico. Se «chi
rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio resta sopra lui»
(Gv 3,36; 1 Gv 5,12), per essere valida questa asserzione, necessita di due
aspetti importanti e concreti: ▪ 1) La piena reale disponibilità dell’offerta
per tutti (credenti e non); ▪ 2) La piena libertà di accettare tale dono, che
gli viene offerto concretamente, o di rifiutarlo. Se uno di questi due punti non
è valido, tutta l’asserzione è falsa. Il «numero chiuso» a priori invalida
questa asserzione. Non è scritto: Chi non è eletto a «credere al Figlio non vedrà la vita…»,
ma «chi rifiuta di credere»: ciò presume il libero intendere e volere.
Come abbiamo visto, comunque, Giovanni Battista parlava
ai Giudei, suoi contemporanei, ponendoli dinanzi a una scelta storica e
teologica epocale.
■ Una nota personale alla fine. Gaetano parla di
una «persona faziosa», con cui sembra non identificarsi, ma di cui fa
stranamente l’avvocato (poco prima aveva detto però: «…mi sembra anche difficile
affermare come ha detto Nicola che…»); poi aggiunge: «Io non sono di parte».
Questo è meglio che lo giudichino gli altri, no?
5.
{Nicola Berretta}
▲
Ho trovato l'articolo di Argentino molto interessante e condivisibile. [►
Riflessioni sull’elezione divina
{Argentino Quintavalle - Nicola Martella}] La possibile antitesi
con ciò che ho scritto io [►
La predestinazione dell’individuo, figlia d’una cultura umanistica],
riguardante l'elezione collettiva contrapposta a quella individuale, credo che
l'hai chiarita in modo eccellente col tuo contributo, che condivido totalmente.
Ciò che hai scritto lo trovo così esauriente, che preferisco non aggiungere
nulla, anche per evitare un accanimento su un argomento che resta comunque
difficile da catalogare nei nostri schemi razionali. Il rapporto tra elezione
collettiva e responsabilità individuale è indubbiamente difficile da
comprendere, ma credo che sia una chiave essenziale per non cadere in
conclusioni non bibliche, quali quelle della dottrina calvinista.
►
Quanto è libero il «libero arbitrio»?
{Nicola Martella}
6.
{Rosa Fidelis, ps.}
▲
Le
parole pronunciate da Gesù in Giovanni 6,44 («Nessuno può venire a me se il
Padre che mi ha mandato non lo attira»), come già ha detto Nicola, possono
essere intese rettamente soltanto se collocate nel contesto, partendo
dall’inizio del sesto capitolo. Gesù, dopo aver sfamato la gente che lo seguiva
mediante la moltiplicazione dei pani e dei pesci, si sottrae all’entusiasmo di
coloro che vogliono farlo re, ritirandosi da solo sul monte; poi, sopraggiunta
la notte, sale in barca coi discepoli che si recano a Cafarnao, dall’altra parte
del lago di Galilea. Ma la gente viene a cercarlo anche lì. Gesù, allora, invita
queste persone, che lo cercano perché lui continui a provvedere loro il cibo
materiale (6,26), a guardare oltre la materialità del miracolo per riconoscerne
il valore di «segno» che rimanda a una realtà soprannaturale. Il pane che queste
persone hanno mangiato è un cibo che perisce (6,27) perché questo pane non
mantiene a lungo le sue qualità nutritive e anche perché la parte d’esso che
viene assimilata dal nostro corpo perisce col corpo stesso, alla nostra morte.
Queste persone devono quindi cercare un pane che dura e conduce alla vita eterna
(6,27); pane che Gesù darà loro (6,27b) e che è Gesù stesso (6,41), la sua vita
e la sua morte, il suo dono di grazia, la sua santità e la sua giustizia: esse
devono quindi credere in Gesù.
Ma Gesù sa
che non tutti i suoi interlocutori credono in lui e fa notare che per credere in
lui occorre accettare il dono della rivelazione soprannaturale che il Padre
offre a tutti («saranno tutti istruiti da Dio» 6,45a), sotto forma
d’insegnamento-attrazione (6,44). Non tutti accolgono questa rivelazione, ma
Gesù dice: «Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me»
(6,45b).
Quindi sta a
noi ascoltare il Padre, che si rivela tramite la persona stessa di Gesù, Figlio
del Padre e suo rivelatore, per accogliere questa rivelazione.
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