L’articolo «Leucemia:
una vita tra paura e speranza» di Inge Wende ha motivato alcuni lettori a portare la loro personale
testimonianza di parenti stretti durante il decorso del «brutto male» dei loro
cari. La malattia non cambia inesorabilmente solo il malato, sia nel fisico, sia
nella psiche, sia nella qualità di vita, ma muta anche chi è intorno a loro. La
persona cara, senza volerlo, trascina con sé nel vortice tutto ciò che le sta
intorno.
Nel
primo contributo viene descritto come la vita e la morte possano essere così
contigui. La mancanza di una fede personale nel Dio vivente spinge il malato e i
suoi cari nelle mani di religiosi, di maghi, di santoni, di taumaturghi e
guaritori. Tante speranze si mischiano a tante delusioni, per lasciare poi solo
posto alla disperazione.
Nel
secondo contributo vediamo come la fede personale del malato e dei suoi cari
nell’Onnipotente trasformino la situazione completamente e le persone stesse.
Sebbene Dio rimanga sovrano nel guarire completamente, nel permettere una
guarigione a tempo o nel non farlo, la fiducia nelle promesse di Dio guarisce
gli animi nella malattia. In tali casi la fede del credente malato diventa una
potente testimonianza per i suoi cari e per quanti gli stanno intorno. Una tale
persona, sia che continui a vivere, sia che muoia, lascia un «buon odore di
Cristo» intorno a sé (2 Cor 2,14ss).
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Stefano Frascaro} ▲
Leggendo la
testimonianza di Inge Wende non posso far a meno di far scorrere i
ricordi indietro nel tempo, a quando, vivendo inconsciamente una vita che reputi
felice, in realtà non facevi altro che avvicinarti l’anticamera d’un incubo che
mai e poi mai avresti pensato che ti potesse accadere.
Ho vissuto una storia analoga a quella descritta, ma da due punti di vista
differenti, posizioni fondamentali che fanno vedere sotto altra luce tutta una
vicenda così dolorosa. Il tumore venne a mia moglie, e non eravamo credenti.
Mia moglie aveva 33 anni quando, incinta del mio secondo figlio (che ora sta
bene grazie a Dio), gli venne diagnosticato un tumore al colon.
Dalla gioia d’una gravidanza, il secondo figlio tanto desiderato e ricercato,
all’incubo d’una malattia, di cui già solo il nome ti terrorizzava. Mi ricordo i
primi esami, quando andammo da uno specialista per chiedere il motivo di «strane
perdite di sangue» e mi ricordo i sorrisetti di questi «luminari» che ci
dicevano: «Ma di che avete paura? Sua moglie è troppo giovane, in gravidanza
queste perdite sono normali…». Ma qualcosa non mi quadrava. Purtroppo
vengo da un passato in cui l’esoterismo era il mio ambiente quotidiano, e certe
sensazioni le conoscevo purtroppo molto bene.
Trovammo un dottore che ebbe il coraggio, dopo molte insistenze da parte mia,
d’effettuare una colonscopia a mia moglie. Avevano paura che un esame così
invasivo, fra il terzo e l’inizio del quarto mese di gravidanza, potesse
scatenare un aborto. Iniziarono con i primi dieci centimetri, non c’era nulla;
io potevo assistere, vista proprio la particolarità dell’evento; volevano
smettere, ma un medico s’assunse la responsabilità e andò avanti. Bastarono
cinque centimetri dopo, una curva dell’intestino, e lo sguardo di tutti cambiò
da «sufficienza» a spavento e meraviglia. Non so se avete mai visto una massa
tumorale, io non l’avevo mai vista prima, ma quello che vidi capii subito che
era un tumore. Una massa nera, avvinghiata alla parete intestinale, sembrava una
sanguisuga… e forse lo era veramente poiché stava succhiando la vita a mia
moglie e a mio figlio.
Da quel momento la nostra vita cambiò totalmente. Dagli incontri di gioia per la
gravidanza, si passava ai visi di convenienza… (povera ragazza, così giovane… e
poi incinta… povera creatura…); fate attenzione a quando interloquite con una
persona o un famigliare d’una persona malata, si sviluppa una sensibilità
diversa… non si vuole la pietà, si vuole continuare a vivere!
Il nostro tempo cominciò a essere scandito dalle attese. Il nostro orologio non
aveva più lancette ma valori degli esami, le nostre date si ricordavano con gli
esiti degli esami («…cara, ti ricordi quando fu?...». «Ah, sì, quando scoprimmo
che i valori erano scesi…»). Mia moglie era diventata un caso clinico.
E cominciarono anche i viaggi della speranza. Tutti li ho girati. Tutti i
santuari. Ho fatto scalzo tragitti interminabili in nome della madonna e per sua
intercessione, sono andato da santoni, da preti guaritori; vivevamo di sguardi
(«Ma hai visto come ti ha guardato quel frate guaritore? Forse ti è
arrivata la grazia…»). Conobbi persone che in casa avevamo statue di pseudo
santi e madonne ad altezza naturale, effettuavo tutti i giorni «purificazioni»
della casa, sottoponevo mia moglie a interminabili sedute di guarigione tramite
il Reiki… e quanti soldi! Quanti soldi diedi a questi ciarlatani ma, credetemi,
che se m’avessero chiesto di camminare a testa in giù e su una mano sola,
l’avrei fatto.Vista con gli occhi d’oggi mi viene ripugnanza per quello che ho
fatto, ma v’assicuro che è un percorso comune a moltissimi.
Arrivò la commissione di bioetica. Dovevano stabilire, loro, se dovevano far
andare avanti la gravidanza e salvaguardare il bambino o operare subito mia
moglie e perderlo sicuramente. Quando seppi di questa commissione entrai nella
direzione sanitaria e chiarii al primario, senza grossi giri di parole, che cosa
ne pensavo io della commissione e che potevano usare tutti quei fogli, che
m’avevano dato, come carta igienica. Stavamo al policlinico Gemelli di Roma,
all’avanguardia per la chirurgia addominale, ma retrogrado per la libertà
d’opinione.
Arrivò il tempo della prima operazione. Diedero delle bombe di cortisone a mia
moglie per sperare in un recupero miracoloso della capacità respiratoria
autonoma in mio figlio, che ancora era nel suo grembo. Un grembo che portava
dentro di sé la vita e la morte, la speranza e la sconfitta, la gioia e il
pianto.
Mi raccontò il prof. Doglietto che, mentre asportavano il tumore (era
posizionato dietro l’utero, miracolosamente non aveva attaccato la parete
dell’utero stesso), c’era un chirurgo che lo teneva sollevato e sentivano tra le
mani Davide che si muoveva, e proprio lui, il prof. Doglietto, sentì, mentre
recideva il tumore, un calcetto alla mano da un Davide che già nell’utero
iniziava il suo combattimento con la vita. Si dovette sedere per l’emozione che
provò in quel momento…
La richiusero e gli effettuarono una stomia intestinale (praticarono un orifizio
nell’addome con una deviazione nell’intestino; da li espletava le sue funzioni
intestinali). Iniziarono le cure di cortisone per il bambino.
Assunta, così si chiamava mia moglie, era una bella donna. Eravamo, fino a quel
periodo, felici. Quella felicità che può avere una coppia che aveva un buon
lavoro, una casa, un figlio, che era in attesa del secondo... chiaramente con
gli alti e bassi di tutte le famiglie, non eravamo perfetti, ma sereni nella
nostra imperfezione.
In un caso di tumore o malattia gravissima «l’interprete principale» (passatemi
il termine) è chiaramente il malato. E così deve essere. Non voglio passare da
egoista, chi combatte il combattimento più duro è il malato. È quello che
deve essere circondato d’affetto, capito, sopportato, esortato… ma a chi gli sta
vicino? Sapete, mi sono accorto che la malattia in molti casi rende egoisti. Io
volevo bene a mia moglie, ma con il male s’era trasformata. E ci mancherebbe
direte voi. Sì, è chiaro, lo dico pure io ma… esiste, soffre, s’angoscia, non
dorme più anche chi gli sta vicino. Sì, esiste chi gli sta vicino e a questa
persona non gli basta sentirsi dire: «Che uomo forte che sei!». Anche
questa persona soffre, questa persona deve lasciare la tristezza fuori della
porta, perché non deve far vedere a sua moglie che ha paura. Questa persona deve
essere ottimista anche quando sa che i dottori gli hanno detto: «Sa, in queste
condizioni ha meno del 25% delle possibilità di sopravvivere». Questa persona
deve sorridere, quando la persona malata gli ricorda che andrà via e che dovrà
pensare a far crescere i bambini da solo. È vero, è lei che sta morendo ma un
pezzettino di te muore insieme a ogni sua chemioterapia e alla sua sofferenza
per le mani e le piante dei piedi bruciate dall’infiammazione, a ogni risonanza
che segnala dei peggioramenti; una parte di te muore, quando ti metti d’accordo
con il dottore per trovare il modo di dirgli che la chemio non funziona come
dovrebbe. Una parte di te muore ogni volta che tuo figlio di 10 anni ti guarda e
ti chiede: «Ma come mai mamma non s’alza mai dal letto?».
E lei, giustamente, t’asciuga d’ogni goccia di linfa che hai in corpo. Lei
s’aggrappa a te, vede la tua forza e vuole che diventi la sua di forza ma non sa
che quel residuo di movimento che hai è un riflesso meccanico. T’assorbe ogni
istante, diventa quasi gelosa del tuo essere sano. Ma sapete come si dorme in
queste situazioni? Sapete che le notti non saranno mai più le stesse, che ogni
sospiro diverso, che ogni rumore ti fanno sobbalzare. E sapete che significa
vivere accanto a una persona «stomizzata»? effettuare la pulizia della stomia,
comprare i sacchettini, litigare con le Asl per farsi dare quelle «che non fanno
rumore», andare da amici e accorgersi che il sacchetto si è staccato, o l’aria
emessa l’ha fatto gonfiare come un palloncino e allora con una linguetta in
dotazione devi fargli un piccolo foro e far uscire il gas… Sapete che significa
continuare a farla sentire desiderata nonostante la stomia, che significa fare
l’amore con una donna che ha un tumore in sé che la stava assorbendo come una
spugna assorbe l’acqua.
Ora, però, l’ho detto prima, io avevo una prospettiva di vita diversa e quindi
mi cadeva il diritto di lamentarmi, d’avere un problema, una necessità, una
esigenza! Lei non può staccare per un attimo la spina, quindi neppure tu puoi.
Non esiste più la possibilità d’avere ed esternare un mal di testa, una giornata
pesante, ma cosa è un mal di testa o una giornata pesante di fronte al dramma
che tua moglie sta affrontando?
Arrivò il tempo della seconda operazione. La nascita di Davide (e assistetti
anche a questo parto, fatto unico al Gemelli poiché per i parti cesarei non
facevano e penso che tutt’ora non facciano assistere). Egli nacque con un peso
di 950 grammi… con il calo fisiologico arrivò a 830 grammi. Appena nato era
piccolissimo.
Mentre lo estraevano accarezzavo la fronte di mia moglie. Feci (o fecero) lo
sbaglio di mettermi dietro al telo, su cui pulivano gli attrezzi durante
l’operazione. Mentre parlavo con lei mi vedevo i pezzettini di carne su questo
telo… erano più le volte che mi girava la testa, a un certo punto il chirurgo se
ne accorse e ci furono momenti d’ilarità nella sala. Finalmente Davide nacque.
Lo avvolsero immediatamente nella coperta termica fatta d’alluminio per non
fargli perdere calore e insieme ai dottori del reparto di neonatologia facemmo
le corse per i corridoi infiniti del Gemelli per giungere il più rapidamente
possibile in reparto. Mentre correvo lungo questi corridoi, mi vedevo con tutta
la tenuta da sala chirurgica e non capivo cosa stavo facendo, vedevo la
preoccupazione dei dottori che correvano, che monitoravano, che parlavano tra di
loro e con il telefono interno per avvisare che stavamo arrivando. Vedevo la
loro preoccupazione e mi chiedevo, se dovevo essere felice o fermarmi e dire
basta. Non sapevo se gioire per la nascita o maledirla, poiché la gravidanza ha
accelerato il decorso del tumore, ma d’altronde se non c’era questa gravidanza
mai e poi mai ci saremmo accorti di quella massa… mille dubbi, il rimorso che ti
dice: «Ahò, ma che stai a dire? È tuo figlio…». Sì, mio figlio. Ma io vedevo una
coperta in alluminio, ci vedevo dentro una «cosa» piccolissima, ma siete certi
che sia mio figlio?
Arrivammo al reparto, mi lasciarono fuori, tutti i parenti intanto che corrono
per i corridoi per darmi notizie che l’intervento intanto era finito, di non
preoccuparmi… Le pacche sulla spalla, il darmi gli auguri a bocca stretta… e che
dici a un uomo che sta vivendo quel momento? Auguri? Di che? Auguri che mio
figlio è avvolto dentro un foglio di carta stagnola e pesa 950 grammi e non
sappiamo se ha sofferto per la respirazione poiché i polmoni non erano
completamente formati e il cervello avrebbe potuto avere danni irrecuperabili?
Auguri perché tua moglie ha superato l’operazione del parto cesareo ma, già che
c’erano, hanno dato un occhiata al fegato e hanno visto che per il momento non
c’era ancora nulla? Auguri papà!
La sera, verso le 23,00 mi fecero entrare in reparto. Mancava poco che mi
dovetti fare una doccia per le precauzioni che presero, ero più sterile io d’una
garza appena aperta. Mi chiesero: «Lo vuole prendere in braccio?». «No!», il mio
cuore diceva: «No, Stefano lascialo perdere, non toccarlo perché, se non lo
tocchi, è meno doloroso se poi lo perdi. Stefano, se non lo tocchi soffri di
meno…». «Sa», mi dicevano, «gli fa bene, i neonati sentono l’affetto, vale più
una carezza che cento farmaci… e poi sua moglie pensi, è già qua fuori e vuole
vedere che lei lo prende in braccio». Ecco, lei è stata operata stamattina ed è
già qui e io mi faccio questi problemi? Ma io devo essere forte… volevo urlare
che non volevo, che avrei sofferto di più, che mi bastava sapere che stavo
perdendo mia moglie e non volevo soffrire anche per mio figlio. Mi hanno messo
una coperta in mano, messa in un modo che formasse quasi una culla, e poi mi
hanno messo qualcosa dentro questa coperta. Avete idea delle dimensioni d’un
bambino di 950 grammi? Sapete, è tutto formato! Lo so, è normale che sia tutto
formato, ma in quel momento fu per me una sorpresa. Era così piccolo! Aveva due
braccine che erano un mio dito indice, i piedini larghi quanto il mio pollice. E
poi il peso: nove etti neppure li senti. Non sentivo d’avere nulla tra le
braccia, mai e poi mai pensavo d’avere mio figlio in braccio. Ma poi abbassai
gli occhi e il mio sguardo incontrò il suo. Mi vergognai d’aver pensato a tutto
quello di prima. Il suo sguardo era quello d’un lottatore, che già nella pancia
aveva dovuto e saputo tirare fuori i denti e combattere. Sapevo che
quell’esserino piccolo, che tenevo completamente nel palmo della mia mano, era
mio figlio, che stava combattendo giorno per giorno, ora per ora, istante per
istante per sopravvivere. Che diritto avevo io allora ad avere paura? A non
volerlo? In quell’istante s’era trasformato da un conglomerato di cellule con
forma umana a mio figlio! Che cosa meravigliosa che è la mente. Ti trasforma, ti
dà la forza dove pensi che non esiste più neppure un briciolo.
Come mai neppure per un istante pensai a Dio? Eppure era sicuramente Lui che
stava preparando tutto, era sicuramente Lui che stava organizzando e
pianificando il nostro incontro. Tutte quelle che allora assorbivo come
coincidenze, ora m’accorgo che non era altro che lo svolgimento d’un piano
meraviglioso. Ma prima dovevo abbattere quell’«io» che veniva dopo la «D» [di
«Dio, N.d.R.] e che mi faceva sentire indispensabile e al centro di tutto quello
che succedeva.
Chiaramente non era possibile allattarlo naturalmente, Assunta doveva iniziare
subito dei cicli di chemioterapia e gli rimandarono indietro il latte. Che bello
che fu vedere la gara di solidarietà che si venne a creare fra tutte le mamme
che c’erano in reparto. Le infermiere, di nascosto, mi dissero che molte
puerpere chiedevano se potevano dare il loro latte a Davide. Notarono che solo
chi aveva avuto il primo figlio non s’era fatta mai avanti. Ma si può capire… il
tuo latte è per tuo figlio.
Mentre il piccolo cresceva, mia moglie cominciava il travaglio delle chemio,
degli esami, delle visite, degli stregoni, dei maghi, delle speranze, delle
illusioni, delle delusioni, delle risposte, delle interpretazioni: «Ma il
dottore ha detto così… che voleva dire?».
«Ma hai visto quel mago quanta saliva buttava fuori mentre ti toglieva il
malocchio?».
«Sai cara, stanotte ho fatto un sogno che…».
E in casa non c’era più intimità. Ma perché tutti pensano che casa d’un malato
deve essere sempre piena? E ritrovavamo persone che non vedevamo da anni, che
venivano con quello sguardo curioso, rapaci, di vedere la poverina… e che ti
toglievano qualsiasi forma d’intimità, che t’aprono gli armadi per prendere un
cuscino in più, che frugano nei cassetti con curiosità per cercare un fazzoletto
pulito per lei… Ma perché non capiscono che una casa con un malato è una casa
normale! L’aiuto deve essere quello che richiediamo noi, non quello che
vogliono gli altri!
Scusatemi per questo sfogo e non datemi dell’egoista. A mia moglie non gli ho
fatto mancare nulla. Il sorriso non è mai sparito dalle mie labbra, la forza non
mi è mai venuta meno, una lacrima non è mai scivolata sulle mie guance.
Mia moglie visse per altri quattro anni dalla nascita di Davide. Avevamo visto
come i soldi possono fare la differenza. Avevo pagato sei milioni di lire per il
primo ciclo di chemioterapia con un prodotto sperimentale. Avevo speso per due
anni 381.000 lire al giorno per la «cura Di Bella». Non chiedetemi come ho
fatto. Non ho più una casa e ho ricevuto tanto aiuto da brave persone.
E il Signore? Non lo conoscevo e il modo in cui ho affrontato questa storia
è evidente. Il solo aiuto che ho cercato è stato in me stesso e negli idoli. La
forza dovevo cercarla solo in me stesso… Che macigno che avevo!
Che differenza nell’affrontare le cose con il Signore. Me ne accorsi quando
scoprimmo il tumore al cervello di Davide. Ma questa è un’altra storia. Una
storia a lieto fine, che magari racconterò un’altra volta. {15 giugno 2009}
2.
{Calogero Fanara} ▲
Nell’anno 2000, nel
pomeriggio di domenica 7 maggio, il Signore chiamò a sé mio zio Joe (Giuseppe),
malato di cancro. Aveva soltanto 43 anni. Questo mio caro zio (fratello minore
di mamma) abitò a casa nostra quand’era giovane e quando mio fratello e io
eravamo ancora bambini, per cui non vi dico i legami che avevamo insieme. Gli
volevamo un mondo di bene. Lo ha allevato mia mamma.
Mio fratello e io abbiamo dormito accanto a lui, sia in ospedale, sia a casa,
durante la fase terminale. Ricordo ancora le notti all’ospedale quando durante
qualche oretta riusciva a dormire un po’. Ci alternavamo con sua moglie, mia
mamma, mia zia, mio papà e mio fratello Samuele per non lasciarlo mai da solo.
Durante la notte, andavo nel corridoio a piangere, e m’ascoltavo qualche CD
cristiano con canti che parlavano proprio delle prove.
Zio Giuseppe, oltre a essere una persona squisita, era un fervente cristiano,
servo molto attivo nella nostra chiesa e leader dei giovani. In passato, il
Signore lo aveva guarito miracolosamente, prolungandogli la vita per altri 20
anni. Allora, mentre stava per dipartire, chiese un ultima volta al Signore di
prolungargli la vita e lasciarlo crescere il figlio Davide, fanciullo a
quell’epoca. Alcuni giorni dopo, i medici rimasero sbalorditi nel vedere che
l’osso dell’anca si stava risanando da solo, e non solo ma cresceva anche! I
medici gli avevano dato al massimo tra 6 mesi e un anno di vita. Era nel 1981.
Visse fino al maggio del 2000. Il figlio Davide aveva 20 anni e il secondo 13.
Anche durante gli ultimi mesi dell’atroce sofferenza, lo zelo e il fervore
cristiano di mio zio mi hanno sconvolto e aiutato a capire cosa vuol dire amare
e servire Dio a qualsiasi costo. Ho visto con i miei occhi la forza che può
generare una fede ancorata sulla persona e sull’opera di Cristo, e poco
importava a mio zio se il Signore avesse o no deciso di guarirlo. Certamente, la
sua richiesta era sempre la stessa: «Signore, abbi pietà di me e sanami…». Però
era consapevole del miracolo che gli era già stato accordato 20 anni prima,
sapendo che Dio è sovrano e proprietario della nostra esistenza.
Spesse volte, quando ero seduto accanto a lui nella stanza, mi chiedeva di
leggergli alcuni passi della Scrittura. Avevo 24 anni, e allora, non ero ancora
ben ancorato nella fede. Per me, resistere all’emozione era un esercizio
difficoltoso. Quando si è affezionati a una persona a cui si vuole un mondo di
bene, credetemi, vederlo soffrire è molto difficile. Dovevo mostrargli d’essere
forte e fiducioso. Non mi sarei mai permesso di dirgli di no o di scappare via.
Potrà sembrarvi strano, ma alcuni momenti prima di morire, lo vidi con i miei
occhi alzarsi leggermente e muovere le braccia verso l’alto, come se avesse
visto qualcosa.
Sono sicuro che il Signore gli avrà fatto vedere qualche bella visione di ciò
che lo aspettava nell’aldilà. La mia non è stata rassegnazione e neanche ho
provato rammarico nei confronti di Dio. Sono uscito da questa sconvolgente
esperienza più forte e più rasserenato di quanto lo ero prima. Lo zio mi ha
fatto il più bel regalo che avrebbe potuto offrirmi nella vita: la
testimonianza d’un servo di Dio la cui fede non ha vacillato nemmeno nelle più
atroci sofferenze... È qualcosa di sconvolgente! Lodare Dio mentre il tuo
corpo è preso da atroci sofferenze! Da allora, ho chiesto a Dio di darmi questa
stessa forza e fiducia in Lui, chiedendogli di rimanere fedele a Lui non solo
quando tutto va bene, ma anche se dovessi passare per qualche durissima prova.
Vi confesso che un po’ di paura ce l’ho nel dirvi questo, però se il Signore ha
sostenuto la fede di mio zio fino alla fine e in tali condizioni, non vedo
perché non dovrebbe sostenere la mia fede se dovessi anch’io passare per il
fuoco in futuro...
Che cosa sono 70 o 80 anni di vita su questa misera terra in confronto con
l’eternità? Il Signore vi benedica… {16 giugno 2009}
3. {Vincenzo Russillo} ▲
Testimonianza sul dolore
Ho letto con
profonda attenzione il racconto d’Inge, è stato penetrante, mi è sembrato di
vivere con lei quei momenti di dolore. Il suo percorso fino alla guarigione è
stato arduo, la prima sensazione che ho provato alla fine della lettura, è stata
d’angoscia e allo stesso tempo ho sofferto sentendo questo patire nello scritto.
Ma non può passare sott’occhio il messaggio vivifico di Cristo, Egli pervade la
nostra esistenza come un soffio di speranza, poiché c’è un Dio che si prende
cura di noi.
A questo io non ci sono arrivato subito. Ho toccato con mano il dolore stando
vicino alle persone a me care. All’età di 11 anni, ho perso mio nonno
colpito da un ictus. Fu un duro colpo per me; prima d’allora, potevo finalmente
trascorrere molto tempo con lui perché aveva trascorso parte della sua vita in
Svizzera a lavorare ed era appena andato in pensione. Purtroppo fu stroncato da
questo male.
Non feci in tempo di metabolizzare il dolore della morte di mio nonno che, due
anni dopo, si spense la zia di mia madre che per me era come una seconda
madre. Era stata colpita da giovanissima da un tumore al seno, fu operata e poi
guarita. Dopo qualche anno, fece nuovamente degli esami e le trovarono un cancro
all’intestino. Inizialmente le fecero un intervento per estrapolare la parte
malata, dopo di che le fu messa una sacca per supplire alla sua digestione.
Ricordo che questo per lei era un motivo di grande dolore, oltre alla
preoccupazione delle continue chemio che doveva affrontare. Era una donna
solare, ricordo il suo sorriso e la sua tranquillità con la quale affrontava
ogni problema. Ma allo stesso tempo, negli ultimi giorni prima di partire per un
altro intervento, divenne triste e affaticata; chi affronta tali malattie
sicuramente è pervaso dalla paura di morire. Ricordo che le ultime parole, prima
di partire, furono queste: «Ricordati di me quando morirò». Furono delle parole
che mi toccarono in fondo all’anima; ancor oggi, pensandole, mi strappano delle
lacrime e mi fanno respirare a fatica. Mia zia era una donna «credente»,
immagino avesse come ogni cattolica la percezione di Gesù, se pur non la
pervadeva quel messaggio di speranza. Negli ultimi giorni della sua vita, iniziò
a frequentare la chiesa e a pregare i «santi». Inoltre i miei parenti, si
recarono da una delle tante «madonne» che, si dice, avesse poteri guaritori.
In questi momenti per coloro che non hanno sperimentato la forza di Cristo, si
cercano delle scappatoie sbagliate. Quanto a me, li seguii con «religioso
silenzio» in quel loro pellegrinaggio. Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua,
non credevo affatto che una statua potesse far guarire mia zia. Più che speranza
avevo voglia di piangere.
Nel frattempo mia zia, partì verso Genova. Fu sottoposta al terzo intervento.
Sembrava che tutto fosse andato per il meglio. Infatti la sera dopo, la sentii
al telefono e mi tranquillizzò dicendomi: «Tra una settimana torno a casa e ti
posso riabbracciare». In quei momenti ero la persona più felice del mondo, avevo
voglia di gridare a tutti quanto fossi felice. Il giorno dopo mi recai a scuola,
sollevato e quasi appagato. Tornai a casa, con un sorriso sia per la notizia
datomi, sia per un bel voto preso nell’interrogazione. Nel frattempo a casa mia,
c’era una fila di parenti. Non chiedendomi il perché, mi misi a mangiare. Ad un
tratto, il cibo mi scese di traverso. In me, sentii di colpo una sensazione di
vuoto. I miei parenti mi fissavano. Ad un certo punto, aprì il cancello di casa
e scappai in strada piangendo; avevo intuito che mia zia non c’era più.
Realizzai in un solo momento un dolore per me fortissimo; era svanita
ogni certezza e allo stesso tempo ero arrabbiato con il mondo. Più il tempo
passava, più la mia «ferita» s’allargava. Quel minimo di speranza che avevo in
Dio, lo avevo perso. Non credevo più a niente. Mi sentivo tradito anche dai miei
parenti, poiché pregavano un qualcosa che sentivo lontano. Allo stesso tempo
provavo un dolore. Nella mia vita non c’era più una sensazione di gioia.
Purtroppo questo spaccato della mia vita, è intriso dal dolore e dal
disorientamento provocato dal distacco da Cristo.
Di certo questi momenti, mi sono serviti per darmi l’input alla ricerca di
Dio. Non avevo perso del tutto la speranza. Sapevo che il dolore doveva
essere il preludio di qualcosa di più bello. La Bibbia mi ha rivelato tutto ciò
che di bello si può sperare e ho appreso dalle parole di Gesù la gioia che ogni
cristiano può far sua anche nei momenti più difficili: «Beati quelli che sono
afflitti, perché saranno consolati» (Mt 5,4).
Il dolore fa parte della vita d’ogni uomo. Anche Gesù provò questo
sentimento durante la propria vita: «E, presi con sé Pietro e i due figli di
Zebedeo, cominciò a essere triste e angosciato» (Mt 26,37); e allo stesso
tempo sperimentò l’annichilimento della croce: «Egli ha portato i nostri
peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato,
vivessimo per la giustizia, e mediante le sue lividure siete stati guariti»
(1 Pt 2,24). Gesù ha sofferto le vessazioni degli uomini e da giusto è morto
sulla croce dandoci questa speranza: «Egli asciugherà ogni lacrima dai loro
occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le
cose di prima sono passate» (Apocalisse 21,4). {19-06-2009}
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Leucemia tra paura e speranza? Parliamone {Nicola Martella} (T)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Travaglio_cancro_parent_Esc.htm
16-06-2009; Aggiornamento: 29-06-2010
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