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1.
{Tonino Mele} ▲
NON TUTTO CIÒ CHE È
ACCADEMICO È ACCADEMISMO
Riflessioni intorno al sapere
1. CONSIDERAZIONI PRELIMINARI: Caro Nicola, come da te
chiestomi, interagisco col tuo j’accuse
sull’accademismo. Ho aspettato a dire la mia, perché ritengo che ci sia gente
più «titolata» di me per parlare su quest’argomento e, spero che prima o poi lo
facciano, in maniera altrettanto pubblica, se non altro, per dare a tutti noi un
quadro più obiettivo della questione. In fondo, senza per questo banalizzare o
screditare la tua esperienza d’accademico e di docente, credo che essa vada
comunque bilanciata da come vede le cose, la «direzione» d’una scuola o istituto
biblico. Indubbiamente, la prospettiva è diversa e foriera di tensioni, ma non
credo insormontabili, soprattutto in un ambito cristiano… Se lo scopo precipuo
di tutte «le parti» è la ricerca della volontà di Dio, credo che tali «fratture»
possano essere ricomposte.
Certamente, devo ammettere che io
parlo da ex studente, che all’Ibei è stato solo di passaggio, anche se continuo
a portarla nel cuore, mentre tu, ci sei stato, mi pare, più d’un terzo della tua
vita in qualità di docente e questo ti da sicuramente molti più «titoli per
parlare», ma permettimi di dire che si tratta comunque d’una titolarità
«soggettiva», legata a come tu hai vissuto il problema, alle tue ragioni, che, a
torto o a ragione, restano le «tue» ragioni. In seconda battuta abbiamo appreso,
che ci sono altri docenti che la pensano come te e questo rende sicuramente meno
soggettiva la tua riflessione, ma resta sempre una riflessione «di parte»,
proveniente dal corpo docente, a cui bisogna affiancare le riflessioni del
«corpo dirigente», e spero lo facciano presto.
In merito all’accademismo io
sottoscrivo quanto affermato da Pietro Micca (ps.): «Bisogna continuare a
essere biblici oltre che credibili da un punto di vista accademico». Ben venga
la tua critica contro l’accademismo «chiuso e fine a se stesso», però talvolta
ho l’impressione che metti troppe cose nello stesso calderone, rischiando di
demonizzare ciò che invece può avere una valenza positiva. Anche se la tua
esposizione è, come al solito granitica e stringente, non tutto è così logico e
conseguente. Mi riferisco ad accostamenti del tipo: «Altra
cosa è il culto d’un accademismo erudito, chiuso e fine a se stesso»; «L’accademismo
pensa che la meta desiderabile sia quella d’alzare maggiormente il livello
d’insegnamento. In tal modo diventa un’attività elitaria»; «I suoi «termini
tecnici» diventano il cifrario di un’elite d’iniziati»; «quando iniziai a
insegnare era una “scuola biblica”, quando smisi, ventilava d’essere “facoltà
teologica”»; «il sistema dei crediti mi sembra la raccolta punti delle
merendine, si promuove la mediocrità, la mancanza di spirito, di fantasia,
d’indipendenza intellettuale». Fammi capire: l’erudizione è un male? È così
deleterio alzare il livello d’insegnamento? È talmente tragico che una scuola
biblica miri a diventare una facoltà teologica? Il sistema dei crediti promuove
necessariamente la mediocrità?
Qui di seguito tenterò brevemente
di rivedere alcune questioni da un’angolatura diversa, soprattutto per
dimostrare che non tutto quello che è accademico e accademismo. Del resto, tu
hai fatto bene a parlare del «verme dell’accademismo», ossia d’un corpo estraneo
che cerca d’attaccare la pianta del sapere e della sua presentazione, anche se
il gran numero di temi, rischiano, a mio modesto avviso di confondere un po’ le
idee e di creare una clima di linciaggio non solo del verme, ma della pianta
stessa, dell’accademismo e dell’accademico stesso.
2. LIVELLAMENTO DEL
SAPERE: Con la tua competenza e professionalità
accademica, hai saputo circoscrivere il discorso e non andare oltre, ma c’è chi,
per questa via, dilaga nel terreno accidentato dei luoghi comuni, dove la
semplicità (leggi ignoranza) è più auspicabile della conoscenza, «la conoscenza
gonfia», la conoscenza equivale necessariamente a orgoglio o fragilità
caratteriale ed emozionale e così via. Personalmente, avrei voluto frequentare
un istituto biblico non solo fedele alla Scrittura, ma con un livello accademico
più alto. Mi son preso quello che ho ricevuto e mi sono accontentato. Sono
tornato nella mia comunità dove sono pienamente e felicemente inserito, svolgo
un lavoro secolare estremamente manuale, tratto con persone d’ogni tipo e non ho
smesso di coltivare i miei studi e le mie conoscenze.
Alzare il livello degli studi non è
un male, come non è di per se un male essere ricchi… tutto dipende da cosa ne
facciamo di tali cose. Alzare il livello degli studi non nasce solo dal
desiderio d’accreditarsi nel panorama accademico, ma può essere legittimato, ad
esempio, anche dal bisogno di sfornare insegnanti d’un certo livello, pur
restando fortemente ancorati alla Scrittura. O vogliamo che siano ancora le
scuole liberali a influenzare certi ambienti? Ma senza andare molto lontano: chi
prenderà il posto dell’attuale corpo docente dell’Ibei? Professorucci che a suo
tempo sono stati studentucci a cui si è voluto risparmiare lo studio duro per
livellarli su gradi accademici di ripiego? Si vuole continuare a importare
docenti da realtà accademiche straniere, non solo per lingua, ma anche per
cultura, o si vuole dare a studenti italiani seri e avvezzi allo studio non
livellato, la possibilità, tutta italiana, di costruirsi un bagaglio accademico
di tutto rispetto? Perché è così tragico che un istituto biblico diventi una
facoltà teologica? In fondo, molte delle risorse che circolano presso gli
istituti biblici, docenti compresi, non provengono da facoltà teologiche?
3. INCENTIVAZIONE E VALUTAZIONE DEL
SAPERE:
In merito alla critica sul sistema dei crediti, mi pare che si sottovaluti la
sua valenza positiva. Si dimentica infatti, che esso è un importante stimolo che
serve a incentivare non la mediocrità ma l’eccellenza, ed è anche un buon
correttivo contro il soggettivismo, il clientelismo e il nepotismo nella scuola.
Fabio Mussi, ministro dell’Università e della Ricerca, ha affermato: «A parte
i casi d’aperta corruzione, per i quali c’è la magistratura che m’auguro usi la
mano pesante, nella formazione, nella scienza e nella ricerca il corporativismo
lobbistico è una malattia e il nepotismo è un delitto. Sono stati provati tutti
i metodi concorsuali immaginabili senza ridurre significativamente quella dose
d’arbitrio e di manipolazione che persiste. C’è una sola via: fortissimi
meccanismi di valutazione dei risultati che premino il merito, e affidare
alla valutazione una quota negli anni crescente del budget complessivo dei
finanziamenti (La Repubblica, 5 Settembre 2006).
La scuola
ha bisogno di sistemi d’incentivazione e di valutazione il più possibile
oggettivi, ove il rischio di manipolazione e d’arbitrio sia ridotto al minimo e
immagino che questo discorso non valga solo per il sistema dei crediti, ma anche
per il ricorso al «piano di studi» e a programmi ben definiti. Tra i «mali della
cultura scolastica», non esiste solo il verme dell’accademismo, con la sua
ossessione del «grado accademico», lo scolasticismo ecc., ma anche quello del
clientelismo e del nepotismo, ove si rischia di premiare il più «simpatico» e il
più «affabile» a scapito di chi invece si butta a capofitto negli studi con
impegno e sacrificio e non ha tempo per lesinare le simpatie «extra-curriculari»
dei professori. Fai bene a incoraggiare un rapporto più umano tra docenti e
studenti, ove l’insegnante diventa anche un maestro di vita, tuttavia, bisogna
tener presente, che i pericoli non sono insiti solo nella chiusura d’un
accademismo vuoto, ma anche nell’apertura
d’un rapporto di tipo preferenziale, clientelare e nepotista. Da questo
versante, una logica granitica e stringente ci porta a immaginare un
soggettivismo senza freni, un individualismo esasperato e un’indipendenza che
rasenta più l’anarchia che una vera libertà e fecondità di spirito.
4. ASTRAZIONE DEL
SAPERE: L’equilibrio tra teoria e prassi è indubbiamente
auspicabile, tuttavia, sul modo di raggiungerlo c’è molto da dire. Anche qui
s’annida qualche luogo comune, tipo: astrazione = irrealismo e sterilismo
pratico. Si dice che Eintein quando scoprì la sua famosa formula E=mc2,
pensava che tutto il suo valore fosse nella sua linearità espressiva, senza
alcuna valenza pratica. Oggi noi sappiamo quanto si sbagliava e come quella
formula abbia trovato applicazioni in molteplici campi. Chi stabilisce il grado
d’astrazione del sapere? Quante ricerche sono state abbandonate perché giudicate
troppo astratte, per poi esser riprese da altri, con un senso pratico migliore o
con qualche conoscenza in più che schiudeva la porta a tutte le sue possibili
applicazioni. Quanti eroi, chiusi in laboratori asettici, alle prese tutta la
vita con ricerche «prive di risultati», che poi, spesso dopo la loro morte,
hanno gettato le basi di scoperte rivoluzionarie, gravide di risultati pratici.
Chi può dire che la loro era una vita buttata al vento dell’astrazione e
dell’irrealismo? Quanti accademici inascoltati, incompresi, accademicamente
soli, non per loro volontà, ma perché incapaci di parlare un linguaggio meno
tecnico e meno cifrato. Ma siamo tutti dei Piero Angela? Viviamo in un mondo che
vuole tutto e subito e mal sopporta le lungaggini, i giri tortuosi, i deserti e
i miraggi che spesso bisogna rincorrere per arrivare al sapere. E
quest’impazienza è motivata spesso dall’avidità di concretizzare economicamente
il sapere. Stiamo attenti a fissare troppo facilmente linee di demarcazione tra
l’astratto e il concreto, la teoria e la pratica. Forse, non sta a noi fissare
queste linee, ma al sapere stesso. Talvolta s’esce barcollanti dalla lettura di
studi esegetici e filologici d’un certo livello e la tentazione di considerarli
astrusità teologiche è forte, perché non se ne vede un’immediata finalità
pratica. Eppure, proprio la Bibbia che leggiamo tutti i giorni è il «risultato»
di ricerche di questo tipo!
5. SVECCHIAMENTO DEL SAPERE: Svecchiare il
sapere teologico e non, dalle sue incrostazioni ideologiche è altresì
importante, ma anche qui bisogna stare attenti a una rottura drastica e totale
col passato. In fondo, la teologia nasce da una retrospettiva di come Dio ha
parlato e agito nella storia. E non è vero che il passato equivale
necessariamente a vecchio e sterile.
Al riguardo, è risaputo che il
Rinascimento, con tutto il suo rifiorire nel campo delle arti, delle lettere,
delle scienze ecc. ha tratto origine dalla riscoperta dei testi greci e latini.
Nel sito Wikipedia, alla voce Rinascimento Italiano, si legge: «il
Rinascimento iniziò con la riscoperta di testi greci e latini conservati
nell’Impero Bizantino e nei principali monasteri europei, testi che, una volta
scoperti, incoraggiarono tutta una serie di nuovi studi e invenzioni nel secolo
successivo». Anche la Riforma si è avvantaggiata di questo clima di riscoperta
del passato, perché ha portato a una riedizione dei testi originali del Nuovo
Testamento. Non sempre il passato è la tomba del sapere e della libera
iniziativa, o un territorio di fuga dal presente con le sue incombenze e
responsabilità, anzi, può essere il trampolino di lancio verso nuovi orizzonti.
Rileggere il passato è spesso molto stimolante proprio per fecondare un presente
misero di stimoli e di valori.
Per contro si può citare l’esperienza non proprio
positiva del Futurismo del primo ‘900, che, pur avendo contribuito allo
svecchiamento delle arti e della letteratura, in forte opposizione
all’accademismo imperante,
ha poi finito per diventare palestra d’una gretta ideologia (il nazionalismo),
d’un violento e tirannico potere politico (il fascismo) e d’un certo potere
economico (il capitalismo automobilistico). Pur avendo dato un valido contributo
al rinnovamento delle arti e della letteratura, esso ha commesso l’errore di
rompere totalmente e troppo drasticamente col passato, fino a
inneggiare alla guerra, alla violenza (non solo verbale) per ribaltare lo status
quo. E qui, i fascisti hanno trovato la strada spianata. Indubbiamente, questo è
un caso limite ben lontano dalla nostra realtà, ma utile per illustrare che c’è
modo e modo per svecchiare il sapere.
6. CONCLUSIONI: In
definitiva, è giusto dire NO all’accademismo, e tu lo hai fatto efficacemente,
ma diciamo un altrettanto chiaro NO al luogo comune che tutto quello che è
accademico è accademismo, altrimenti, non si metteranno al bando solo le facoltà
teologiche, ma anche gli istituti biblici in genere e la «caccia all’accademico»
ci perseguiterà fin dentro le nostre chiese locali. Le scuole bibliche
continuino a offrire un insegnamento vicino alla realtà degli studenti, delle
missioni e delle chiese locali, perché questo è uno degli aspetti della loro
missione, ma puntino pure a un insegnamento più alto, più vicino alla ricerca e
alla «costruzione» del sapere, perché solo da ciò, possono venire i criteri
d’una corretta presentazione e «volgarizzazione» (nel senso positivo) del
sapere nel tempo. Siano «fucine» del sapere teologico nel presente; non fuggano
nel passato, ma neppure fuggano da
esso. Qualsiasi livello del sapere caratterizzi il loro servizio, ricordino
sempre che è una grazia di Dio che va vissuta appunto come un servizio e non
come un accademismo egoista ed elitario.
2.
{Nicola Martella}
▲
La problematica dell’accademismo in connessione con gli
«istituti biblici»
Sono grato a Tonino Mele per
essersi confrontato con serietà con questo tema e per aver dato il suo
contributo. Mi dispiace soltanto che la questione si sia ridotta all’Ibei,
mentre il mio scopo era quello di avviare una discussione più generale sugli
«istituti biblici» in Italia che prescindesse dalla situazione particolare. Ciò
è quello che ho scritto ad alcuni cristiani che mi hanno interpellato al
riguardo. Il problema in Italia è che c’è scarsa prontezza al dialogo fra gli
addetti ai lavori. Ho mandato un avviso di lettura a vari dirigenti e
responsabili di «istituti biblici», menzionati nell’articolo, ma i risultati
sono stati scarsi. Temo che uno dei punti sia il fatto che avrebbero dovuto
spiegare che i titoli accademici promessi sono spesso solo ipotizzati per il
futuro (e in collegamento con istituti esteri) e, in ogni modo, non riconosciuti
attualmente dallo Stato italiano.
Quindi sono dispiaciuto (e un po’
contrariato) che tutta la questione si sia ora concentrata sull’Ibei.
D’altra parte ciò è comprensibile, poiché le persone che hanno preso la parola
(anonimi e titolari) sono stati tutti legati o lo sono a vario titolo a questo
specifico «istituto biblico». Detto questo, non voglio mancare di rispondere a
Tonino Mele, vista la briga che s’è data.
È chiaro che il mio augurio è
quello che tutte le parti in causa (insegnanti, dirigenti e studenti) di un
«istituto biblico» possano sinceramente, rispettosamente e razionalmente
dialogare su questo tema. Ma questo può solo accadere se queste parti lo
vogliono. Fra gli ex studenti alcuni hanno preso la parola, cosa che
apprezzo. Fra insegnanti (attuali ed ex) e dirigenti la cosa è stata scarsa, e
coloro che hanno scritto hanno chiesto l’anonimato, ripromettendosi che in
futuro avrebbero scritto qualcosa (spesso ciò equivale a un disimpegno).
Quanto ai termini «accademico» e
«accademismo» non volevo certamente dare l’impressione che significhino la
stessa cosa. Io credo personalmente al grande valore degli «istituti biblici»
nell’opera di Dio (oltre alla chiesa locale, alla missione e ad altre opere
paraecclesiali) e credo che bisogna avere docenti competenti in tutti i settori
dell’insegnamento.
La questione riguarda la vocazione
principale degli «istituti biblici», ossia se corrispondono ai bisogni reali
presenti nella nostra nazione e nelle chiese, o se coltivano (oltre se stessi
per avere un «posto al sole» fra gli altri «istituti biblici») uno scolasticismo
fine a se stesso. L’erudizione non è un male, ma gli «istituti biblici»
hanno primariamente una missione concreta da compiere, che deve
corrispondere ai bisogni reali. Alzare il livello d’insegnamento non è di
per sé sbagliato, ma allora bisogna allungare gli anni scolastici. Il rischio è
come è, come un ex studente ha lamentato, che gli studenti perseguano per tutti
gli anni di studio solo obiettivi accademici, restando incapaci di comunicare
addirittura fra di loro e di crescere in tale comunione spirituale e di azioni
concrete comuni.
Neppure le «facoltà teologiche» sono di per sé
negative, ma ciò presenta alcune problematiche, ad esempio le seguenti.
■ 1) Gli «istituti biblici»
dovrebbero rendere le persone, che ricevono ogni anno come studenti (spesso sono
pochi), idonei a servire nel modo migliore possibile riguardo a ciò che sono e
faranno oppure li inquadrano in specializzazioni e programmi che dopo lo studio
non gli serviranno a molto?
■ 2) I titoli che promettono
tali «facoltà», sono veramente riconosciuti in Italia? In parecchi casi abbiamo
seri dubbi. Gli «istituti biblici» devono promettere solo ciò che possono
realmente mantenere attualmente. Avere prospettive è cosa buona, ma il realismo
è salutare; si fa sempre bene a dire come le cose stanno veramente.
■ 3) Devo pensare ad alcuni fratelli che attualmente
sono molto impegnati praticamente nell’opera, i quali sono passati per un
«istituto biblico». Essi hanno un dinamismo incredibile, ma una scarsa
attitudine allo studio di lingue e materie teoriche. Un «istituto biblico», o
comunque lo si voglia chiamare, deve preparare una tale persona secondo la sua
indole e secondo il ministero che vuole svolgere. Lo scolasticismo in certi casi
può reprimere la loro vocazione reale e creare (almeno sul momento) falsi
obiettivi. Detto con un po’ di umorismo, penso che la cosa migliore che alcuni
di questi servitori del Signore abbiano trovato in un tale «istituto biblico»
sia stata la compagna di vita e di servizio.
■ 4) Che ci sia bisogno anche di intellettuali che
perseguano un «mandato culturale» in Italia (anche questa è missione!), è vero.
Abbiamo certamente bisogno di persone preparate e competenti in molti settori (i
«tuttologi» improvvisati fanno molto danno per la loro limitatezza e spesso per
affermazioni categoriche in cose che non comprendono fino in fondo); al riguardo
gli
«istituti biblici» hanno un loro ruolo, comunque si chiamino
e qualunque sia il loro livello d’istruzione. La questione dell’accademismo però
è quello di creare falsi obiettivi, facendo dimenticare la chiamata specifica
degli «istituti biblici» in corrispondenza alla situazione concreta e alle
persone reali che hanno come studenti.
■ 5) Studenti che «scoppiano» all’interno di un
«istituto biblico» per adempiere ai doveri scolastici,
mettendo in secondo piano la cura della propria anima, la crescita morale, la
cura dei rapporti interpersonali, la comunione col Signore e con i credenti e
così via — sono una misera testimonianza per lo stesso «istituto biblico». A ciò
si aggiunga che gli studenti arrivano — non solo con molte domande concrete su
se stessi, su Dio, sul mondo, sulla ricerca della volontà di Dio, sui propri
doni e sul proprio ministero futuro — ma anche con molti problemi che sperano di
risolvere. Lo scolasticismo fine a se stesso è la risposta meno adeguata a dare
tali risposte. Di studenti andati in profonda crisi spirituale ed esistenziale,
ne ho visti parecchi.
Ha detto bene Tonino Mele che il «verme dell’accademismo»
è un corpo estraneo, riprendendo l’immagine che avevo presentata. Infatti non
bisogna «gettare via il bambino con tutta l’acqua sporca». Io, come detto, credo
nel mandato specifico degli «istituti biblici», ho insegnato (e imparato) con
passione, studiare è entusiasmante, sono rimasto curioso e sono oltremodo
entusiasta per ogni nuova scoperta; è fuori dubbio che tornerei volentieri a
insegnare in uno o più «istituti biblici».
Mediocrità e ignoranza sono «vermi» peggiori
È fuori dubbio che mediocrità e
ignoranza sono «tarli» che fanno tanto danno nelle menti e nelle vite di tante
persone. La ricerca della verità è importantissima. A ignoranti «tuttologi»
bisogna preferire persone competenti in uno o più campi specifici del sapere. Un
vero studioso è chi sa che «conosciamo in parte», come affermò Paolo; chi scava
sulla superficie di un iceberg, sa che più scava e più è enorme ciò che
sta sotto. La saccente ignoranza e l’arrogante mediocrità, accompagnata dalla
pretesa del «tuttologo», mi ripugnano da qualunque «pulpito» o «cattedra»
partano. La questione dell’accademismo è un’altra, come mostro qui di seguito.
Qual è la vocazione degli «istituti biblici»?
In un vivaio c’è una grande
varietà di piante diversissime fra loro per natura, specie, frutti, eccetera.
Trattare tutte queste piante allo stesso modo è sbagliato: hanno bisogno di un
clima, di un terreno e di una cura differente; alcune si possono innestare solo
con altre; e così via. Il gestore di tale vivaio vuole trarre il massimo da ogni
pianta in riferimento alla natura della singola pianta, agli obiettivi che si è
prefissato e all’impiego concreto che ne farà chi l’acquisisce. Penso che gli
«istituti biblici» debbano esser come vivai, dando a ognuno il suo in
corrispondenza di ciò che ognuno è (anche fra gli studenti ci sono indoli,
«specie» e vocazioni differenti) e del bisogno concreto che si ha. (Far studiare
ad esempio lingue bibliche a una persona con una predisposizione pratica per
avere almeno tre studenti in una classe, non solo crea un problema a tale
studente durante gli studi, ma probabilmente anche agli altri studenti per la
mediocrità del livello e successivamente alle chiese per l’uso limitativo ed
erroneo che farà di tale infarinatura linguistica, poiché un saccente ignorante
spesso radicalizza ciò che crede di sapere.)
Mi piace anche l’immagine dell’allenatore
(a differenza dell’addomesticatore), il quale allena ogni giocatore secondo la
sua indole e il suo potenziale concreti, traendo da lui il massimo per eccellere
nel suo ruolo. Si potrebbe aggiungere anche l’immagine della
fucina, in cui il fabbro tratta ogni metallo secondo la sua natura
specifica, per trarne strumenti e oggetti confacenti alla natura stessa del
singolo metallo.
Questa è la mia visione di
un «istituto biblico»: un vivaio, un campo d’allenamento e una fucina. Chi ha
una predisposizione accademica o intellettuale, lo si aiuti a eccellere in ciò;
lo stesso vale per chi ha una predisposizione di tipo più pratico: si tragga il
massimo da lui. La cosa peggiore che possa fare un medico, è curare una malattia
con le medicine sbagliate. I bonsai possono apparire affascinanti, ma sono
naturalmente e praticamente dei menomati. Studenti che escono da un
«istituto biblico» come «limitati nell’efficienza» o addirittura come dei malformati
nella personalità, nella spiritualità e nella morale, è la cosa peggiore che si
possa fare o desiderare.
È fuori dubbio che ci vogliono
docenti preparati e competenti: chi non eccelle di per sé, difficilmente
aiuterà altri a eccellere. Come detto però la questione è quella degli obiettivi
che un «istituto biblico» deve avere. Penso che ognuno di essi faccia bene a non
perdere di vista la vocazione che ha nel panorama concreto in cui è inserito;
deve avere un equilibrio (continuamente cercato) fra informazioni da trasmettere
e formazione della personalità, fra obiettivi scolastici (curriculum, programmi)
e bisogni concreti (degli studenti e dell’opera di Dio nella propria nazione).
Non è tragico che un «istituto
biblico» diventi una facoltà teologica, ma poi lo sia
veramente. Restano comunque alcune domande al riguardo: È vero ciò che si
promette? (curriculum, titoli, ecc.). I docenti hanno veramente la preparazione
necessaria? Si hanno abbastanza studenti per essere facoltà? Che cosa faranno
in pratica tali studenti con un titolo del genere, dopo aver terminato gli
studi? E così via.
Il sistema dei crediti
La questione dei crediti è stata
sollevata da uno studente di università all’interno di una critica verso
l’intero sistema scolastico. Premiare il merito è cosa sacrosanta. La questione
è per che cosa si dà un credito. Se si dà dei crediti solo per gli aspetti
accademici (assimilazione dei saperi e loro riproduzione scritta e orale), si è
delle «anatre zoppe» che creano altre «anatre zoppe»; ciò discriminerà
certamente tutto ciò che è di pratico (servizio) e anche la formazione della
personalità e lo sviluppo del carattere (aspetti spirituali, morali, ecc.). È
chiaro che ciò rappresenterebbe una forte discriminazione verso coloro che non
vogliono solo acquisire dei saperi, ma vogliono imparare a servire e
specialmente a diventare dei cristiani migliori. Lo stesso vale anche viceversa,
ad esempio, nelle «scuole di vita», dove spesso si ritiene che la formazione sia
più importante dei saperi (che possono essere approssimativi o generalistici).
Anche le «scuole di vita» sono importanti, ma anche in esse non ci dev’essere
mediocrità e pressappochismo.
Ho visto studenti a caccia di
crediti accademici che hanno trascurato di vivere da cristiani e di crescere a
360° come credenti. A volte, i problemi con cui sono arrivati, non sono stati
risolti; tutto è stato «rimosso» ai fini degli obiettivi accademici, per
ripresentarsi poi alla fine degli studi. Tornando al vivaio, alcuni «alberi» si
sono messi (e sono stati messi) in curriculum e specializzazioni adatti ad altri
«alberi», ma non a loro stessi, poiché hanno percepito che gli obiettivi
accademici erano il massimo a cui si poteva aspirare. Come si sa, solo alberi
con grandi e profonde radici possono sorreggere un alto o grande albero.
Il sistema dei crediti non è
sbagliato, se ogni «albero» è trattato secondo la sua natura e specie e se i
crediti sono consoni per valutare ciò che in tale studente veramente c’è e non
solo secondo mire accademiche (adatte per l’uno, ma non per l’altro).
Equilibrio del curriculum e il bene dello studente
L’equilibrio nel curriculum è
necessario per dare a ognuno il suo, senza prevaricazione e strumentalizzazione.
Il rispetto della natura dell’allievo è un punto fondamentale nella pedagogia. È
un punto fondamentale anche dell’educazione biblica. «Inizia il fanciullo
secondo la sua via; non se ne discosterà neanche quando sarà anziano»
(Pr 22,6). L’espressione ebraica «secondo la sua via» non è da intendere
tanto «secondo la condotta che deve tenere» (così alcune traduzioni), ma
«secondo la sua indole (natura, ecc.)»; non è tanto un «livello» che deve
assolutamente raggiungere, ma che venga istruito secondo la sua propria
«costituzione».
È strano che si possa aver pensato
che uno studioso — ho sempre preferito chiamarmi «studiante» (studiare è una
delle mie passioni più forte») — sia contro lo studio, l’analisi e la ricerca!
Qui stiamo però parlando d’altro, ossia della vocazione e del servizio degli
«istituti biblici».
Alternativa fra vecchio e nuovo
Non ho posto l’alternativa fra
vecchio e nuovo. Se dovessi porre un’alternativa, privilegerei certamente
l’esegesi invece che i sistemi ideologici e le sovrastrutture dogmatiche nate
durante la storia in contrapposizione con altri. Ma di ciò non ho parlato. Non
so da dove Tonino abbia voluto trarre tale alternativa fra vecchio e nuovo. Ci
sono vecchie stoltezze e nuove follie. Ci sono vecchie saggezze e nuove
intuizioni. Gesù disse che «ogni scriba ammaestrato per il regno dei cieli è
simile a un padrone di casa il quale trae fuori del suo tesoro cose nuove e cose
vecchie» (Mt 13,52). Quindi l’alternativa è fra cose giuste e non, fra cose
utili e non, fra cose vere e non, siano esse vecchie o nuove.
Alternativa fra accademia e accademismo
Da «studiante» non posso certo
disprezzare lo studio serio e profondo, l’analisi accurata e la ricerca
rigorosa. Chi legge i miei libri, sa dello scrupolo che mi pongo nell’illuminare
un soggetto da vari punti di vista. Non ho mai messo in dubbio una cosa del
genere. Gli «istituti biblici» sono importantissimi per l’opera di Dio. Ma qui
non devo ripetere ciò che ho già detto sopra. Ho sopra parlato di «vivai», di
«campi di allenamento» e di «fucina»: questi sono immagini che amo. Gli
«istituti biblici», qualunque siano i loro obiettivi accademici, siano proprio
questo e inizino ogni studente al sapere biblico e teologico, ognuno «secondo
la sua via».
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