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1.
Introduzione
▼
2.
Verso un nuovo
concetto di metodo
▼
3.
I nuovi sviluppi della linguistica |
Prima parte |
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Questo articolo lo
presentiamo in due parti, a causa della sua lunghezza, specificità e difficoltà
di comprensione per tanti lettori. Esso non è destinato a tutti, ma solo
a quei lettori che sono appassionati dell’interpretazione del testo biblico,
quindi di ermeneutica, di esegesi contestuale, di linguistica e discipline
affini.
Tale approfondimento rappresenta la risposta di Tonino Mele a uno studio
precedente di Francesco Grassi:
► Per un’analisi lessicale del testo biblico
1
|
2.
Qui di seguito si fa uso dei termini «sincronico» e «diacronico». Col
primo s’intende il significato di un termine in un certo momento della storia;
mentre «diacronico» intende l’uso e lo sviluppo di un dato termine nel
tempo. {Nicola
Martella}
►
Seconda parte |
▲
1.
INTRODUZIONE:
L’articolo pubblicato nel sito dal titolo «Per
un’analisi lessicale del testo biblico 1»
è un buon articolo, che merita d’essere
letto e approfondito anche da chi potrebbe, a una prima lettura, trovarlo
difficile e «pesante». È un articolo interessante, che rivela la dimestichezza
dell’autore con certi approcci allo studio della Bibbia che, è vero, non hanno
molta eco nella nostra realtà evangelica italiana. Con una ricerca un po’
certosina, cose interessanti e utili si possono trovare anche qui in Italia, ma
poi vanno anche rielaborate, valutate e collocate in un discorso ordinato e
lineare. L’autore dell’articolo, attingendo da fonti perlopiù nordamericane, ha
fatto questo per noi, dandoci una rappresentazione, forse per molti nuova, di
quelli che sono gli sviluppi della ricerca biblica, alla luce anche delle
importanti acquisizioni delle scienze linguistiche. Siamo dunque grati
all’autore di questo e lo incoraggiamo a darci ancora contributi del genere.
Tuttavia, bisogna
dire che
l’impianto piuttosto polemico
dell’articolo, ha portato l’autore a compiere qualche «fuga in avanti», finendo
per polarizzare e radicalizzare un po’ troppo le sue posizioni. Infatti, a
tratti si ha l’impressione che egli corra troppo, quasi come una «staffetta»
che, dopo aver raccolto qualche mia affermazione, la porta avanti in modo sempre
più distante dal «mio» pensiero. Così facendo, il confronto si trasforma
in una sorta di «non dialogo», dove il flusso del pensiero non è più regolato
dalla correlazione dialogica dell’uno di fronte
all’altro (confronto appunto), ma in una sorta di monologo dell’uno
senza l’altro. Si pensa d’aver capito tutto del proprio interlocutore,
quindi ci si proietta in avanti con i suoi pensieri, in una logica serrata, che
non solo smarrisce il vero pensiero dell’altro, ma finisce per sbilanciare anche
il proprio pensiero, rischiando di cadere dalla parte opposta.
Anche se ho affermato che «bisogna conoscere l’uso diacronico d’un termine,
prima» di fiondarci nello studio sincronico, non ho voluto dare
assolutamente nessuna preminenza al primo, né dire che tale metodo decide le
sorti della mia esegesi, né tanto meno dire che il senso lessicale d’un termine
deriva dalla sua etimologia. Questo non m’appartiene e basta rileggere il mio
studio su 2 Pietro 1,3-4, dove non ho attribuito a questi versetti «sensi
lontani», neppure se distanti solo di qualche capitolo (allusione al cap. 3), ma
ho cercato nella struttura, nelle parole ripetute (epignosis) e nel senso
del cap. 1, il significato dei versetti in questione. Più sincronico di così?
Anzi, lamentavo proprio che l’articolo «Natura
divina e incorruttibilità in 2 Pietro 1,3-4», non è stato
sufficientemente vicino alla problematica del capitolo 1, quindi
insufficientemente «sincronico»…
Per quanto riguarda invece lo «sbilanciamento» presente nell’articolo,
questo sarà il tema del presente scritto. La mia tesi è che la relazione tra
sincronia e diacronia nello studio della Bibbia, non va vista in modo
dicotomico, cioè come una contrapposizione rigida e netta, ove l’uno esclude
l’altro o lo include in casi molto circoscritti (vedi il punto 4 dell’articolo «Per
un’analisi lessicale del testo biblico 2»). Per contro, la mia
tesi è che la relazione tra sincronia e diacronia nello studio della Bibbia, va
vista in maniera più complementare, cioè come un’interazione di metodi,
che aiutano l’esegeta a precisare il senso dei vari testi della Scrittura. A tal
fine, ci adopereremo d’una concezione meno rigida del concetto di «metodo», dei
nuovi sviluppi della linguistica e dei nuovi sviluppi dell’esegesi moderna, sia
sotto il profilo teologico che metodologico.
▲
2.
VERSO UN NUOVO CONCETTO DI METODO: Leggendo l’articolo «Per
un’analisi lessicale del testo biblico 1», mi ha colpito
l’enfasi che viene data alla parola «prima», da me usata, quando ho affermato: «Prima
di studiare l’uso sincronico d’un termine, bisogna comunque conoscere l’uso
diacronico dello stesso». Riprendendo questa mia espressione, l’autore arriva
persino a costruirvi la seguente tesi di fondo del suo articolo:
«Nell’analisi lessicale… alcune cose ne precedono altre. La tesi di
quest’articolo è che lo studio sincronico preceda quello diacronico. Se si vuole
evitare di cadere nell’errore etimologico, allora è importante riconoscere la
differenza fra i due metodi e la priorità dell’uno sull’altro. È possibile
infatti che uno voglia dare pari importanza a entrambi i metodi, o che voglia
addirittura invertirne l’ordine: sarebbe la stessa cosa? Avremmo gli stessi
risultati? Non importa veramente cosa preceda cosa?».
Indubbiamente, l’autore ha ragione nel dire che il fare
le cose con un certo ordine porta dei vantaggi. Tuttavia, quando dice che
invertire un certo ordine metodologico, significa, per forza di cose «cadere
nell’errore etimologico» e avere dei «risultati» sballati, egli sta facendo un
ragionamento viziato per due motivi: ▪ 1. Fa delle «valutazioni di merito» e
da dei «giudizi di valore», laddove dovrebbe limitarsi a fare delle «valutazioni
di metodo»; ▪ 2. Sopravvaluta il metodo e lo pone anche al di sopra
dell’esegeta. Esaminare questi due aspetti risulterà utile per capire meglio il
ruolo che il metodo deve avere nel nostro processo di studio della Parola di
Dio.
2.1. VALUTAZIONI DI METODO E DI MERITO: Nella nostra valutazione delle
cose non bisogna mai confondere piani e categorie diverse. Non posso usare
categorie estetiche (attinenti all’esteriore, al bello ecc.) per definire
categorie etiche
(attinenti alla morale, a ciò che è giusto o sbagliato ecc.). Non posso dire che
chi è bello, bianco e ricco, è anche
necessariamente buono e giusto. Potrebbe anche essere così, ma non è
automatico o scontato. Le due categorie non si corrispondono per forza di cose.
E per capire quanto può essere deleterio usare una categoria per definire e
valutare l’altra, basta fare l’esempio contrario a quello fatto. Immaginiamo
dove ci porterebbe l’idea che il brutto, il nero e il povero (categorie
estetiche) sono necessariamente e per forza di cose anche cattivi (categoria
etica e morale). È molto probabile che alla base di certi fenomeni di
pregiudizio sociale come il razzismo, ci sia un modo siffatto di valutare cose e
persone, che muove appunto da una confusione di piani e categorie diverse.
Tornando a noi, bisogna sfatare l’idea che il dare
priorità temporale a un metodo, significhi dargli anche «preminenza» in termini
di valore. Si può considerare più importante il metodo sincronico (come
in effetti lo considero) e nella prassi di studio iniziare dal metodo
diacronico. È illogico? È poco produttivo? È poco opportuno? È una perdita di
tempo? L’autore dell’articolo ci ha illustrato molto bene e con ragione che lo è
(vedi punto 2.1. e 3.2.), ma si sarebbe dovuto fermare qui. Dire che questa è la
via obbligata per l’errore etimologico, significa finire male un
ragionamento iniziato bene. Per «finire bene», si sarebbe dovuto dire che un
metodo anziché un altro può portare «prima» a un risultato, ma non
necessariamente falsarlo. È anche matematico: «Invertendo l’ordine dei fattori,
il risultato non cambia». E sulla scia di quest’analisi, mi permetto di rigirare
nei confronti d’un certo rigorismo metodologico-etimologico, qualche domanda di
riflessione più generale: è giusto trarre le mosse da considerazioni d’ordine
metodologico e, diciamolo pure, da qualche ingenuità d’ordine etimologico e
linguistico per parlare di «servitori meno attenti» e di «conseguenze che
paga la chiesa»? Ciò che mi preoccupa nella frase di Silva, non è il «meno
attenti», ma il «servitori»! Non si finisce così per fare «giudizi di valore»,
che travalicano il piano in questione, che è semplicemente metodologico? Qui è
opportuno citare le parole del Kuen: «Occorre una certa dose di presunzione per
pensare che abbiamo dovuto aspettare il XX secolo per trovare il modo di
comprendere la Parola che Dio ha donato al suo popolo come rivelazione della sua
volontà. Tutti i credenti che ci hanno preceduto si sarebbero dunque smarriti
su false piste?
I principi da essi pazientemente elaborati e che hanno ottenuto il consenso di
quanti hanno studiato la Bibbia con serietà sarebbero tutti da buttare nella
spazzatura per adottare la nuova ermeneutica?».[1]
Inoltre, per dimostrare come un metodo, che pone
«prima» lo studio diacronico dello studio sincronico, non toglie niente al
valore e al merito di quest’ultimo, non ci fionda necessariamente nell’errore
etimologico, ma anzi può spianare la strada al metodo sincronico, basta citare
il manuale d’esegesi dell’IBEI, il cui autore riveste a tutt’oggi la «cattedra»
di semantica biblica: «Un
vantaggio dello studio diacronico (che potrebbe sembrare superfluo, visto
che sono i risultati dello studio sincronico che c’interessano soprattutto) è
che ci rende più sensibili a intravedere tutti i risultati nell’usus
loquendi senza lasciare sfuggire quello che sarebbe meno ovvio se non avessimo
una conoscenza di tutta la storia della parola. Un altro vantaggio è che la
conoscenza guadagnata dallo studio diacronico rende la nostra comprensione e
presa dell’usus loquendi più profonda, chiara e durevole. Quindi, riassumendo la
discussione fatta finora, si deve fare prima un elenco di tutti i
significati in tutti i campi semantici in tutta la storia della parola. Questo è
lo studio diacronico. Poi si può stabilire quest’altro elenco più
limitato di tutte le possibilità di significati nel campo semantico (cioè tutte
le accezioni) nel periodo storico da cui proviene il brano biblico [studio
sincronico]».[2]
[N.d.R: L’usus loquendi è l’uso nel linguaggio corrente in un certo
periodo di tempo, quindi l’uso sincronico in una certa area geografica.]
Infine, non si può non ricordare un fenomeno che spesso
riscontriamo nella pratica delle cose, allorché iniziamo con un progetto in
mente, in base al quale seguire una sequenza logica e cronologica, che nella
realtà finiamo per disattendere. Questa «sfasatura» tra metodo ideale ed
esecuzione reale del metodo riguarda anche lo studio della Bibbia. Valdo
Bertalot, descrivendo la procedura di traduzione della Bibbia, elaborata da uno
degli autori del tanto osannato lessico «Low-Nida», cioè E. A. Nida, nel
passaggio da una fase a un’altra del metodo, ha sentito l’esigenza d’avvisare il
lettore con il seguente appunto: «Bisogna ricordare, però che in pratica la
distinzione tra analisi[3],
trasferimento[4]
e ristrutturazione[5]
non è sempre rispettata rigorosamente nel suo ordine logico. Nella sua
analisi il traduttore ha già presente le esigenze delle altre due fasi, per cui
assistiamo a un continuo interscambio».[6]
Questo non significa che il traduttore perverrà necessariamente a un risultato
falso, perché ha sempre in mente quali sono le vere discriminanti del suo lavoro
ed è lui che prevale sul metodo come ci apprestiamo a considerare.
2.2. PREMINENZA DELL’ESEGETA SUL METODO: L’idea che un metodo
piuttosto che un altro, decida le sorti della nostra esegesi, finisce per dare
troppo peso al metodo e poco all’esegeta, alla sua creatività e alla sua
capacita di valutare e decidere del frutto delle sue ricerche. Qui sarebbe utile
fare qualche studio sulla psicologia dell’interprete, per capire come certi
«automatismi metodologici», presentati e accreditati come strade irreversibili
verso un risultato, siano poco rispondenti alla realtà e servono solo ad
accreditare se stessi e il proprio metodo. Se è vero che «il consenso generale»
pende verso un approccio più sincronico allo studio della Bibbia, è anche vero
che tale consenso si è spostato pure verso una concezione meno rigida del
singolo metodo e una visione più integrata dei vari metodi.
Il teologo Alfred Kuen ci
dice qualcosa di molto interessante contro la sopravvalutazione del singolo
metodo: «Ma, di fatto, quale nuova ermeneutica? Quella della “nuova critica”,
dello strutturalismo, della teologia
della liberazione, della scomposizione? Nel frattempo ci sarà una “nuova ondata”
che cancellerà tutto ciò che sarà stato edificato sulla sabbia delle spiagge
teologiche a partire dall’ultima “nuova ondata”... ogni nuova teoria letteraria
di questi ultimi decenni è stata importata con qualche anno di ritardo e senza
grande riflessione metodologica, nel campo cristiano. Ognuna d’esse ha attirato
l’attenzione su un punto particolare: l’importanza del testo piuttosto che del
suo contesto storico (nuova critica), delle convenzioni letterarie
(strutturalismo)... Comunque, nessuna d’esse costituisce il metodo
ideale; e il carattere unilaterale della loro
insistenza torce generalmente il senso del testo.
Inoltre, esse polarizzano indebitamente gli esegeti e creano divisioni tra di
loro invece di contribuire a un’interpretazione convergente... Tutte le
ermeneutiche bibliche moderne sono trasposizioni di metodi elaborati a partire
da testi profani. Possono attirare la nostra attenzione su un aspetto o l’altro
che l’approccio tradizionale ha trascurato... diverse strade d’accesso
sono possibili...»[7].
Anche Christopher Zito (docente dell’IBEI), nella
recensione d’un libro sul Nuovo Testamento, che ha seguito un approccio
sincronico di tipo letterario, dice qualcosa di molto illuminante sulla
sopravvalutazione del metodo,
qualunque esso sia: «In armonia con le più recenti Introduzioni al Nuovo
Testamento, c’è molto spazio lasciato alle questioni letterarie. Il grande
pregio di questo approccio è che permette al lettore d’esaminare gli scritti
neotestamentari nel loro contesto basilare, ossia come opere letterarie e non
come dimostrazioni scientifiche
basate su preconcetti storici… C’è comunque un difetto che l’approccio
letterario non evita, ossia l’impressione falsa che dà d’essere, non
solo il mezzo per eccellenza, ma anche un metodo in grado di trascendere la
visione del mondo dello studioso che lo adopera. Chiaramente, chi sceglie un
metodo lo fa perché lo ritiene efficace come strumento d’analisi. Sono tanti
i metodi, però, che possono contribuire allo studio delle Scritture, e
affidarsi a uno solo equivale a conseguire un solo genere di risultati; in
questo caso, le disquisizioni a carattere letterario. Per di più, il pregio
dell’approccio letterario al Nuovo Testamento diventa anche un difetto quando
lo studioso non fa attenzione allo “spirito”
del testo».[8]
Si può citare inoltre Donald A. Carson, il quale,
prendendo spunto dallo scritto di Marshall Essays in Principles and Methods
(Saggi su principi e metodi), afferma qualcosa che rievoca la nostra distinzione
tra metodo e merito[9]:
«Ma quando gli “strumenti letterari”
diventano
“principi ermeneutici” assumendo una dignità e un ruolo discriminante
nella discussione al punto da decidere cosa sia o non sia corretto
nell’interpretazione, non è solo l’arco semantico delle parole a venir posto in
gioco». Parlando poi dello «strutturalismo» biblico, che in campo ermeneutico è
l’erede più diretto delle idee Saussuriane, afferma: «L’ala estrema degli
strutturalisti rinuncia del tutto al metodo storico-critico [diacronia] per
concentrarsi sul testo nel suo insieme [sincronia]… Ritroviamo qui il
pregiudizio nei confronti della storia, l’abbandono della diacronia,
e poco interesse in quello che ha da comunicare il testo a livello
“superficiale”». E parlando delle «lacune» dello strutturalismo lo definisce: «un
metodo totalizzante d’avvicinarsi alla Scrittura (e alle altre forme di
letteratura) che nella sua espressione più energica rende la storia poco
importante e fornisce un metodo per evitare il trascendente a
qualsiasi livello». Ma è nella conclusione di questo discorso che Carson dà dei
giudizi di valore molto netti: «Alcuni movimenti con ramificazioni ermeneutiche
hanno dato adito a delle attitudini un po’ esclusivistiche… Ad esempio,
lo strutturalismo spesso cade in questa trappola. Tale atteggiamento va evitato
in ogni maniera: non è assiomatico che uno o due metodi ermeneutici possano
rivendicare a ragione i diritti esclusivi o una autorità sufficiente da
escludere altri metodi… le posizioni ermeneutiche anche più impegnate al
giorno d’oggi non permettono mai ad alcuno d’ascoltare una parola sicura da Dio…
Sono alleate troppo strette d’ideologie inaccettabili, ove l’unico
assoluto è il linguaggio stesso. Nonostante ci sia molto da imparare da
questi sviluppi ermeneutici, non dobbiamo inginocchiarci davanti ai loro
altari».[10]
Persino Elia Fiore, esperto di traduzioni bibliche, in
un suo articolo titolato «Una nuova traduzione della Bibbia» — pur prendendo le
mosse dalla «procedura di lavoro» di Moisés Silva e presentandola come antidoto
contro i «risultati dannosi» della «filologia comparata e dell’etimologia»
(giudizio di valore che condividiamo) — alla fine deve ammettere: «È bene
precisare che nessuna delle suddette considerazioni dovrebbe essere applicata
in modo meccanico. La guida dello Spirito Santo, innanzitutto, la
consapevolezza non solo della dimensione umana, ma anche della dimensione
soprannaturale della Bibbia quale rivelazione e la fluidità della lingua — la
sua elasticità, se preferiamo — devono dominare la suddetta analisi semantica
dall’inizio alla fine».[11]
Non esiste dunque nessuna «procedura» che, in modo «meccanico» dia un risultato
scontato e incontestabile. Sempre Fiore continua dicendo: «Anche se alcuni
rimangono dell’opinione che l’elemento soggettivo, presente nelle varie
discipline cosiddette “scientifiche” collegate allo studio e alla traduzione
della Bibbia, è molto limitato, ultimamente molti studiosi si sono resi conto e
hanno riconosciuto che, anche nella disciplina biblica apparentemente più
oggettiva, c’è un notevole grado di soggettività».[12]
Insomma, affermare una visione dicotomica dei metodi di
studio della Bibbia è qualcosa che appartiene più al passato che al presente. Si
sa bene che Saussure ragionava così e che anche Barr ha seguito questa linea.
Oggi, però, seguire in toto tali studiosi, significa riproporre una dicotomia
ormai superata, che poteva avere un senso all’inizio della sua affermazione
(come nuova acquisizione scientifica), quando c’era bisogno d’identificare il
proprio alter ego, per poi distinguersi ed enucleare la propria identità.
Riproporla oggi, significa riproporre una battaglia superata, che rischia
d’essere più fuorviante di ciò, che si pensa di combattere. Perché? Perché dà
alla propria posizione un senso di sufficienza e direi di completezza, che nelle
«rivoluzioni scientifiche»[13]
è giustificabile solo nel passaggio da un «paradigma scientifico» a un
altro, ma dopo, ogni paradigma deve fare i conti con le proprie anomalie
e non più con quelle del paradigma precedente. E visto che nel caso in questione
le «anomalie» sono state già evidenziate e sono state superate con un nuovo
«paradigma», dove la coppia
diacronia-sincronia, è vista più in termini di complementarietà, riproporre la
loro dicotomia, significa tornare indietro e fare un discorso unilaterale e
incompleto che non fa giustizia né alla varietà delle lingue, né alla varietà
dei testi della Scrittura.[14]
Almeno, questo è ciò che apprendiamo con i nuovi
sviluppi della linguistica e dell’esegesi.
▲
3.
I NUOVI SVILUPPI DELLA LINGUISTICA:
Sono stati gli stessi discepoli di Saussure — N.
Trubeckoj, R. Jakobson, J. Tynjanov e Noam Chomsky — che hanno suonato la tromba
dei nuovi approcci alla linguistica. Pur seguendo la traiettoria iniziata dal
loro maestro, se ne sono staccati per dare più valore alla dinamicità e alla
diacronicità della lingua, nonché alla complementarietà dei metodi di studio.
Nell’Enciclopedia Garzanti di linguistica si può leggere: «Furono gli studiosi
russi N. Trubeckoj, R. Jakobson e J. Tynjanov i primi a reinterpretare la
diacronia come storia d’un sistema linguistico e dunque l’analisi diacronica
come analisi della storia del sistema, ma anche ad affermare
la complementarietà delle analisi sincronica e diacronica»[15]
(faccio notare che, diversamente da ciò, Saussure identificava il metodo
diacronico solo «come analisi, nel tempo, di singoli elementi linguistici»). E
ancora si legge: «Nell’ambito delle indagini linguistiche, lo strutturalismo è
sensibilmente
receduto dalla posizione di metodo privilegiato che
aveva negli anni Cinquanta,
per lasciare il posto alla corrente generativistica promossa dagli studi di Noam
Chomsky»[16]
(N.B. James Barr ha pubblicato il suo libro Semantic of Biblical Language
nel 1961).
Intanto, già la cosiddetta scuola di Praga, a partire
dal 1929, iniziò a entrare nel segno del cambiamento. Essa partiva da un nuovo
concetto della lingua, «intesa come “sistema funzionale”, cioè come un sistema
di mezzi espressivi appropriati alla realizzazione del fine comunicativo».[17]
E quindi precisava così la sua metodologia di studio della lingua: «In quanto
sistema, la lingua va studiata da un punto di vista sincronico, ma questo non
s’oppone radicalmente a un punto di vista diacronico (come accadeva invece
in Saussure): anzi è proprio l’integrazione delle due prospettive che
consente una migliore comprensione strutturale; allo stesso fine va tenuto
conto anche delle diverse funzioni che il linguaggio può svolgere, da
quella comunicativa a quella poetica a quella emotiva».[18]
Legato alla scuola praghese, ma da essa distinto per
l’originalità della sua opera c’è
R. Jakobson, che è stato definito «una delle figure più rappresentative della
linguistica contemporanea».[19]
Più avanti vedremo che la moderna teoria della traduzione della Bibbia ha
trovato proprio in lui un suo referente linguistico, e questo non è di poco
conto ai fini d’una teoria dell’esegesi che voglia stare al passo coi tempi.
Intanto, di Jakobson è stato scritto qualcosa che è molto pertinente col
discorso che stiamo tirando su: «R. Jakobson…
ha radicalizzato la tesi praghese del nesso tra sincronia e diacronia
fino a sostenere che le due prospettive sono indissolubili, nel duplice
senso che il mutamento linguistico è parte del sistema stesso della
lingua e che il punto di vista sincronico non si caratterizza come
privilegiamento degli aspetti statici del sistema linguistico, bensì come
tentativo di cogliere la struttura d’un complesso dinamico dei fenomeni
linguistici».[20]
Questo significa che si deve
guardare al linguaggio non come una struttura statica da isolare nel tempo, ma
una struttura dinamica, in continuo mutamento, che incorpora elementi diacronici
e sincronici, che possono essere messi in luce non solo dal famigerato studio
sincronico, ma anche da quello diacronico. E significa anche che la vecchia
contrapposizione «diacronico» (inteso come passato) e «sincronico» (inteso come
presente) va aggiornata con un approccio più globale, che intende il
«diacronico» anche come futuro, come divenire. In questo caso, l’uso sincronico
d’un termine non è altro che la parte presente d’un sistema ben più dinamico
delle categorie, in cui lo ha posto Saussure, un sistema dove regna non la
preminenza, ma la complementarietà tra elementi diacronici e
sincronici. Forse Saussure si rivolterebbe nella tomba, se sapesse che i suoi
posteri hanno abbandonato la netta distinzione, da lui operata, tra diacronia e
sincronia e parlano più di complementarietà fra i due approcci.
Con questo modo di
procedere, Jakobson ha dato alla linguistica, contributi che altrimenti
sarebbero stati impensati e impensabili. Qui non voglio dare tutto il merito al
metodo, neppure quello integrato e complementare seguito da Jakobson. Semmai
voglio attirare l’attenzione su quanto può essere restrittivo e riduttivo un
metodo, quando viene sopravvalutato e presentato in modo esclusivo: la dicotomia
diacronia-sincronia di Saussure ha finito infatti per restringere il campo
d’indagine, impedendo di cogliere l’ampiezza del fenomeno linguistico. Grazie
infatti a Jakobson, che ha saputo liberarsi di certe «camice di forza»
metodologiche, oggi sappiamo qualcosa di più oltre l’aspetto
denotativo d’una lingua [N.d.R.: «denotativo» =
indicativo, dichiarativo, significativo; qui si riferisce al messaggio in
sé]. Oggi conosciamo meglio il suo aspetto
connotativo, che, vista la sua importanza nell’esegesi della Bibbia,
parleremo meglio al punto 4 di questo studio [N.d.R.: «connotativo» =
caratterizzante, meglio specificante;
indica insieme un soggetto e uno o più attributi a esso relativi significativo;
qui si riferisce anche al contorno del messaggio, al processo dinamico di
comunicazione fra mittente e ricevente]. Con il
celeberrimo «modello di comunicazione» di Jakobson conosciamo meglio anche la
dinamica della lingua, la quale non è tutta interna a un messaggio, ma è
legata anche a un mittente e a un destinatario nell’atto della
comunicazione.
Commentando il suo «modello
di comunicazione linguistica», Gerardo Milani afferma quanto segue: «Il dato
innovativo di questa classificazione, di cui Jakobson era consapevole [Mittente,
Messaggio, Destinatario], consiste nel fatto che sino ad allora l’interesse
dei linguisti era riservato prevalentemente al contenuto del messaggio e dunque
alla funzione conoscitiva (o referenziale “denotativa”,
“cognitiva”) come funzione primaria. Ora l’attenzione si sposta nella direzione
dei due protagonisti: il mittente e il ricevente. L’atto della “ricezione”, nel
quale si realizza il processo d’ascolto o di lettura, rappresenta il momento
conclusivo dell’azione».[21]
Per riprendere la
metafora della famosa «partita a scacchi» di
Saussure, non solo conta la posizione attuale delle pedine (piano strutturale e
sincronico), ma anche la mano dei giocatori, il loro modo creativo, dinamico,
poetico, emotivo di comunicare, la loro strategia. Le moderne teorie della
comunicazione non parlano solo di messaggio, ma anche di messaggero e di
ricevente. Hanno cioè un approccio più sistemico al linguaggio. Su questo punto,
Alfred Kuen cita Longman, il quale afferma: «Ogni lettura implica l’interazione
dell’autore con il lettore per mezzo d’un testo. Se una teoria si concentra su
uno di questi tre elementi a esclusione degli altri, falsa la realtà».[22]
Anche la grammatica
generativo-trasformazionale di Noam Chomsky, della quale s’afferma che «ha
determinato nella linguistica più recente una rivoluzione metodologica
paragonabile a quella saussuriana»[23],
ha saputo aggirare le restrizioni di Saussure, con importanti risultati.
Nell’enciclopedia di linguistica su citata si può leggere: «Caratteristico della
metodologia strutturale, la cui prima codificazione si ha nel Corso di
linguistica generale (1916) di F. de Saussure, è il principio d’immanenza,
cioè la limitazione dell’analisi e della modellizzazione linguistiche agli
enunciati (ai loro elementi e alle relazioni tra elementi) con esclusione di
tutto ciò che concerne le enunciazioni (parlanti, situazioni ecc.)… In relazione
agli studi sintattici, l’analisi strutturale, a partire da enunciati realizzati
(in particolare da un insieme chiuso di enunciati, definito
corpus) quale base empirica, ha portato a trascurare fenomeni
come la creatività linguistica, che è merito della grammatica
generativo-trasformazionale aver rimesso in luce».[24]
Insomma, un manuale di linguistica più aggiornato ci
mostra che anche nella linguistica propriamente detta, concezioni e metodi di
studio della lingua dicotomici e antitetici hanno ceduto il passo a concezioni e
metodi di studio più complementari e integrati. E il risultato non è stato
quello di sbagliare tutto o incunearsi in «false piste» o regressioni a periodi
oscuri della linguistica, dove regnava l’oscure re dell’errore etimologico. No,
il risultato è stato quello d’aprire nuove piste alla ricerca, che hanno dato
una dimensione più esauriente del fenomeno linguistico. Stiamo attenti dunque a
non mutuare tout court dalla linguistica o da qualche altra disciplina
«scientifica», metodi, concezioni e atteggiamenti troppo rigidi,
dimenticando il carattere di parzialità e di provvisorietà d’ogni acquisizione
scientifica. E soprattutto, non usiamo questo fragile fondamento per emettere
giudizi di valore sulla cosiddetta «ingenua» esegesi tradizionale.
■ 4.
Nuovi sviluppi dell’esegesi:
Aspetti teologici
■
5.
Nuovi sviluppi dell’esegesi: Aspetti metodologici
■
6.
Conclusione |
Seconda parte |
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_BB/A2-Sincron_diacro_complement1_Avv.htm
08-06-2010; Aggiornamento: 29-06-2010 |