Roberto Vacca è caporedattore di «Radio
Voce della Speranza» di Firenze, gestita da Avventisti. Egli, avendo
ricevuto l’invito alla lettura dell’articolo «Pena
di morte e Bibbia» di Fernando De Angelis, ha pensato bene di mandarmi il suo articolo che ha
preparato per il «Messaggero Avventista».
L’autore è partito dall’approvazione da parte dell’ONU
della moratoria sulla pena di morte e si è chiesto se sia giusto togliere la
vita in nome della giustizia. La sua tesi di fondo è che l’eliminazione fisica
del male non lo estirpa. È un articolo fra attualità e approfondimento biblico. |
«Allora il sommo
sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: “Che bisogno abbiamo ancora di
testimoni? Avete udito la bestemmia: che ve ne pare?”. E tutti lo giudicarono
reo di morte» (Mc 14,63-64).
È in questo modo
che Marco descrive il sommario processo di Gesù che si conclude con la sentenza
di morte più famosa della storia.
Il presente e la
storia
La cosa tragica e ironica è che uno dei paesi con la maggiore adesione popolare
alla fede cristiana, gli Stati Uniti d’America, è anche quello che sostiene con
maggiore convinzione la legalità della pena di morte. Ma in questo è in buona
compagnia. Si stima che in Cina la pena capitale sia applicata almeno 10.000
volte all’anno (riferito da Chen Zhonglin delegato del Congresso Nazionale del
Popolo nel marzo 2004, dati wikipedia). Anche paesi come il Giappone la
prevedono nel loro ordinamento, per non parlare di quelli di tradizione islamica
(famosa è la condanna di Saddam Hussein mostrata via internet al mondo intero,
meno nota quella più recente di un giovane omosessuale in Iran).
Come è noto l’Italia si è fatta promotrice della proposta della «moratoria»
della pena di morte, cioè la richiesta che tutti gli Stati per un certo periodo
di tempo interrompano le esecuzioni capitali. Non è chiaro quali siano le
prospettive di questa proposta europea approvata dall’Onu, per ora come semplice
raccomandazione. Molto dipenderà dalla convinzione con cui i paesi promotori
continueranno la loro battaglia all’Onu e a livello di rapporti bilaterali con i
paesi favorevoli alla pena di morte; sarà importante anche la pressione
dell’opinione pubblica internazionale a favore della moratoria.
Per far cessare qualunque appoggio dei cristiani alla pena capitale basterebbe
ricordare che il Figlio di Dio è stato ucciso sulla base del diritto romano che
prevedeva il diritto dello Stato di togliere la vita. Ma le cose non sono così
semplici. In primo luogo perché la pena di morte è prevista nelle leggi
dell’Antico Testamento e non è contestata apertamente nel Nuovo, in secondo
luogo perché certi delitti ripugnanti sembrano richiedere lo spegnimento della
vita del colpevole come atto elementare di giustizia, in terzo luogo perché la
certezza della pena in certi paesi (tra cui l’Italia) è a volte incerta (la
morte no, quella una volta applicata non conosce ripensamenti).
Confesso che non è semplice parlare di questo argomento, perché sospetto che
dietro le ragioni a favore della pena di morte ci sia l’orrore e l’impotenza di
fronte al crimine, insieme a ferite personali, frustrazioni, paure inconsce e
bisogno di vendetta sociale. Sono cose che hanno una loro ragion d’essere,
comprensibili, ma che non si combattono esclusivamente con le armi della
ragione, ma con quelle della rassicurazione sociale (i media invece fanno il
contrario, esasperano l’isteria collettiva), con la fiducia nel futuro, con
un’efficace politica di integrazione sociale che rimuova la paura del diverso e
ridimensioni il senso vertiginoso del cambiamento che le nostre società stanno
sperimentando.
C’è poi un altro problema per i cristiani. Nel giorno del giudizio, così come è
comunemente concepito, Dio eserciterà una sentenza di morte collettiva di
proporzioni mai viste. Una cosa del genere sarebbe già avvenuta in occasione del
diluvio. Perché mai un credente dovrebbe essere intimamente misericordioso se
Dio in ultima istanza non lo è stato e non lo sarà? Naturalmente ci si affretta
a dire che i criteri di giudizio di cui Dio dispone non sono quelli umani, ma
appunto, si fa una differenza nella capacità analitica del giudice, non nella
sentenza in sé. Ed ecco che i nostri fratelli americani sembrano meno
«marziani» di quanto appaiono a prima vista. A ciò si aggiunga uno stato
permanente di allarme sociale e allora non è difficile capire perché la pena di
morte sia così popolare negli Stati Uniti, anche se non è affatto dimostrato che
abbassi i livelli della criminalità.
In realtà la pena di morte non serve a spegnere il crimine, ma a soddisfare un
bisogno di rassicurazione che passa attraverso la vendetta sociale. È noto che
uno degli stati peggio amministrati dell’Italia del XIX secolo, lo Stato del
Vaticano, faceva ampio uso della pena di morte, a cui assisteva un pubblico
entusiasta di uomini, donne e bambini. Ciò che il potere cercava (e cerca)
attraverso l’uso della pena capitale è principalmente trasmettere l’idea che la
società ha il controllo ultimo della situazione, proiettando l’idea di uno Stato
forte. Che poi questa immagine fosse contraddetta dalla realtà — i briganti
continuavano a piagare le campagne e le città del Lazio, a causa
dell’arretratezza economica e culturale dello Stato della Chiesa — tutto questo
era ed è un dato secondario, perché il mondo è come noi lo percepiamo
soggettivamente, non come esso si mostra davvero! Ancora nel Catechismo
universale della Chiesa cattolica del 1992 si trovano dei paragrafi molto
ambigui sulla pena di morte.
Potrebbe essere un relitto culturale ereditato dallo Stato ottocentesco della
Chiesa (in Toscana era già stata abolita nel ‘700), o forse il prezzo pagato
dalla Chiesa per dei rapporti ambigui che la Santa Sede ha intrattenuto con
governi che hanno fatto ampio uso della pena di morte (il franchismo, per
citarne solo uno). Comunque sia, alla luce di queste ambiguità ecclesiastiche,
ancora una volta non sorprende che tanti cristiani siano disorientati.
Il dato biblico
Parlare della pena di morte in rapporto al cristianesimo apre questioni gravi e
di difficile trattazione. In primo luogo bisognerebbe considerare il modo in cui
i cristiani si pongono di fronte alle pagine dell’Antico Testamento: in genere
si è tutti d’accordo che la rivelazione sia progressiva (pensiamo alla
poligamia, per citare solo un esempio), ma è più difficile individuare questa
progressività lì dove l’insegnamento del Cristo è chiaro ma indiretto. Per fare
un esempio, oggi tutti sono d’accordo che la schiavitù permessa (entro certi
limiti) nell’Antico Testamento e largamente praticata nell’impero romano, fosse
una prevaricazione sociale, anche se essa non fu mai dichiarata
esplicitamente immorale da Gesù e dagli apostoli. Mi sembra di poter dire
che la pena di morte è anch’essa al confine tra la liceità vetero-testamentaria
e la condanna del sermone sul monte, che non tratta questo tema, ma ne scardina
la «razionalità divina» quando raccomanda la misericordia perché «Dio è
benigno verso gli ingrati e i malvagi» (Lc 6,35).
Ma non è solo questione di individuare il «singolo versetto» che approva o
condanna la pena di morte. Credo che la pena di morte sia insita nella struttura
più intima del pensiero umano religioso, più di quanto siamo disposti ad
ammettere, a partire dalla nostra concezione di Dio giudice. Ma se Dio è libero
di «desacralizzare» la vita umana, esprimendo un giudizio di condanna a morte
verso il malvagio (e su questo esiste un interessante dibattito teologico), non
è automatico che questo giustifichi un simile atteggiamento umano. Come scrive
l’apostolo Paolo, non fate le vostre vendette, perché il Signore dice «a me
la vendetta, io renderò la retribuzione» (Rm 12,19). In altre parole,
togliere la vita umana ricade in quel fenomeno generale di superbia che è la
divinizzazione dell’uomo (e dello Stato, che ne è l’espressione politica).
Inoltre concepire Dio innanzi tutto come giudice fa parte di una
religiosità pre-cristiana. Le religioni del tempo d’Israele (e in particolare
quelle assiro-babilonesi) vivevano la fede come propiziazione di un Dio
potenzialmente ostile e il confine tra sacro e profano era segnato da tabù
conosciuti e da altri persino ignoti. Non così la fede d’Israele, non così la
fede in Gesù Cristo, che è morto per amore ed è risorto, che ci ha chiamati
fratelli e amici, e che ci ha promesso la vita eterna. In questa visione
rasserenante del rapporto fra l’uomo e Dio (la grazia) non c’è posto per un
giudizio definitivo sul prossimo (Lc 6,37), e se questo è vero nel rapporto tra
fratelli, ciò deve avere una ricaduta nel nostro modo di concepire la giustizia.
Se il sermone sul monte condanna la staticità dei giudizi definitivi, come si
può applicare la condanna più statica che esista, che non conosce nessuna logica
di redenzione, come la pena di morte? Chi sei tu che neghi a Provenzano la
possibilità di passare da una fede fatta di santini e di superstizione a una
fede matura che gli faccia comprendere le sue responsabilità (e il suo dovere di
aiutare a smantellare la mafia)?
Detto ciò, la pena di morte è anche l’estremo tentativo di ridare sicurezza a
noi stessi e ai nostri figli. Eliminando fisicamente il male, si pensa
ingenuamente di estirparlo. In realtà le cose vanno diversamente, come
dimostrano gli omicidi di massa negli Usa in cui dopo aver sparato all’impazzata
in una scuola, il folle di turno si spara alla testa. Come dire: la deterrenza
della pena di morte è scarsina. Ma è anche sacrosanto rispondere al bisogno di
sicurezza e di giustizia, non con provvedimenti demagogici o peggio francamente
razzisti, ma assicurando la certezza della pena, senza scappatoie legali (per i
ricchi) o provvedimenti una tantum per i pezzenti (l’indulto), piuttosto
cambiando quelle leggi che mandano troppo facilmente in galera così come quelle
che invece ne mandano troppo pochi, e anche riformando profondamente
Magistratura e Polizia, per una giustizia più veloce e un controllo del
territorio più capillare. Mi spiace dirlo, ma leggendo i giornali mi piacerebbe
vedere molti membri del nostro Parlamento in galera. Mi devo sentire in colpa se
sento una sete di vendetta sociale che estenderei a quanti frodano il fisco?
Forse sì, perché ragiono più di «pancia» che non con il cervello, ma se siamo in
tanti a pensarla così, possiamo star certi che prima o dopo arriverà l’uomo
forte, l’uomo della Provvidenza, che ci restituirà sicurezza e felicità
portandoci «in piazza» a vedere le teste che rotolano. Dio non voglia che
l’Italia si imbarbarisca ancor di più, nelle mani di gente senza scrupoli.
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A2-Togliere_vita_giustizia_Sh.htm
18-02-2008; Aggiornamento: |