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1.
Introduzione
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2.
La mia esperienza
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3.
Per sopportare la sofferenza
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4.
L’attitudine di Cristo di fronte alla sofferenza
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5.
5. Guardare oltre
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6.
L’atteggiamento della chiesa
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7.
Conclusione |
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1.
INTRODUZIONE:
La sofferenza non è un argomento accademico sul quale imbastire
discorsi più o meno ragionevoli. Di fronte alla sofferenza siamo spesso presi
dall’orrore, dalla paura e da un atteggiamento di rifiuto. Ci scopriamo senza
armi e senza risorse. Essa non si può circoscrivere, è come un oceano grande,
profondo e ogni giorno rischiamo di esserne sommersi. Quale atteggiamento avere?
Fuggire adducendo scuse? O chinarsi mostrando amore e compassione? Insomma
imitare il famoso «buon Samaritano» o il sacerdote che si gira dall’altra parte?
(Lc 10,30ss).
La sofferenza è un’esperienza universale che prima o poi tutti
siamo chiamati ad affrontare, fa parte del cammino di ognuno di noi. Essa però
possiede anche un carattere autobiografico, perché ciascuno la vede attraverso
la sua personale prospettiva, mai uguale a quella di un altro. Non si può quindi
generalizzare e la mia è una lente particolare, che riflette il percorso che ho
fin qui fatto, il modo particolare nel quale Dio mi è venuto incontro.
La sofferenza che conta è sempre quella che ci tocca in
maniera più diretta, perché quello che è lontano non risveglia la nostra
attenzione. Oggi si cerca di rimuovere la sofferenza; la pubblicità esalta la
forza, la giovinezza, la bellezza e la buona sorte, che sono presentate come
condizioni alle quali si ha diritto. La sofferenza è qualcosa che fa paura,
destabilizza le nostre certezze. Tendiamo perciò a cercare esempi che possano
collegare il peccato alla sofferenza, dobbiamo individuare la colpa per
rispondere al nostro bisogno di ordine e di spiegazioni. Parlare della sofferenza, comunque, significa stimolare
una discussione che è profondamente personale, radicata nella nostra visione di
Dio e di noi stessi.
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2.
LA MIA ESPERIENZA:
La prima volta che ho veramente sofferto è stato
quando è morto mio padre. Con lui moriva anche una parte della mia vita e il
dolore è stato presente per anni, anche quando pareva dimenticato, riemergeva a
un tratto con tutta la sua forza. Poi col tempo sono morti parenti cari, amici e
la carta geografica della mia vita, con i suoi punti di riferimento affettivi,
ha subito delle trasformazioni profonde.
La sofferenza non è mai neutra e indifferente, lacera i
nostri cuori, spezza i nostri corpi. Ci piomba addosso all’improvviso, ci lascia
storditi, increduli. Intorno a noi restano solo detriti, macerie, vite bruciate.
A volte ci si chiude in un silenzio di tomba, ma che ha lo stesso fragore
assordante e tremendo di un terremoto, il cui boato resta all’interno delle
viscere della terra. In altri casi c’è una rivolta, un rifiuto del dolore che
invece esce all’esterno, come nel caso di Giobbe e di alcuni profeti, che
manifestano una protesta aperta, chiara, consapevole e chiedono «perché succede
tutto questo?». Sono tante domande che prorompono e anche nel Salmo 22 non si
minimizza, ma viene fuori tutta l’amarezza.
Nel 1989 ho subìto un grave incidente che mi ha resa
paraplegica. Ho trascorso quasi nove mesi in vari ospedali, fra coma,
operazione, risveglio e riabilitazione. Che strano effetto vedermi in sedia a
rotelle, non riuscivo a crederci! Eppure quella faccia che mi rimandava lo
specchio era proprio la mia. Vedevo la mia immagine spezzata, come una bambola
di pezza gettata là senza nessun riguardo. Anche se interiormente mi sentivo
come prima, con le mie capacità, i miei dubbi, le mie debolezze. Mi hanno detto chiaramente che il mio midollo spinale
era tagliato e non avrei mai più potuto camminare, eppure mi sembrava come se
parlassero di un’altra persona. Poi pian piano ho capito cosa significava essere
paraplegici, essere ogni giorno, ogni momento di fronte a un limite. Quella è
stata la mia morte, era come se vedessi scavare la mia fossa per esservi sepolta
viva.
Mi sentivo un po’ come un ostaggio in mano a un nemico
che mi diceva: «Se hai un padre buono, come può averti ridotto così, lasciarti
in questo stato?». In Lamentazioni 3,1-25 è scritto qualcosa che mi ha colpito e
del quale riporto alcune espressioni: «Io sono l’uomo che ha visto
l’afflizione… Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre… Egli ha
consumato la mia carne e la mia pelle, ha spezzato le mie ossa… Mi ha circondato
di un muro perché non esca; mi ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido
e chiamo aiuto, egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli mi ha sbarrato la
via con blocchi di pietra, ha sconvolto i miei sentieri. È stato per me come un
orso in agguato, come un leone in luoghi nascosti. Mi ha sviato dal mio cammino,
e mi ha squarciato, mi ha reso desolato… Tu mi hai allontanato dalla pace, io ho
dimenticato il benessere. Io ho detto: “È sparita la mia fiducia, non ho più
speranza nel Signore!”… Ecco ciò che voglio richiamare alla mente, ciò che mi fa
sperare: è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti;
le sue compassioni infatti non sono esaurite, si rinnovano ogni mattina. Grande
è la tua fedeltà! “Il Signore è la mia parte”, io dico, “perciò spererò in lui”.
Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca».
Ognuno è toccato dalla sofferenza (malattie, lutti,
miseria, ingiustizie, depressioni, delusioni) e la sofferenza nel mondo è
quotidiana: fame, violenze, guerre, catastrofi. Come riuscire ad accettare che
tutto questo faccia parte della stessa condizione umana? Per alcune religioni
(per esempio l’Induismo) la sofferenza non è un grande problema, mentre per la
visione giudaico-cristiana la questione altroché se si pone. Perché se crediamo
che Dio è buono e che si preoccupa di noi, allora la sofferenza diventa una
contraddizione radicale.
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3.
PER SOPPORTARE LA SOFFERENZA:
Nell’affrontare la sofferenza dobbiamo utilizzare,
oltre alla fede, anche la nostra intelligenza naturale, cioè una specie di
bussola interiore che ci aiuta ad affrontare i problemi; lucidità, coraggio e
compassione mi sembrano importanti quanto il sostegno spirituale. Nella lotta
spesso non si ha più un pensiero coerente, perché si vuole essere liberati a
ogni costo. Abbiamo bisogno di capire quello che ci succede, trovare un senso
per reagire in un modo saggio, non siamo pronti, siamo inermi e all’inizio non
sappiamo assolutamente come rispondere al colpo ricevuto.
Prendere atto della propria condizione, qualunque sia
la realtà, è un vantaggio. D’altronde non abbiamo altra scelta: non possiamo
negare quello che ci è successo! Intanto è meglio cominciare a prendersi cura di
se stessi, la luce verrà a suo tempo. La meditazione e la preghiera
rafforzeranno il nostro coraggio, la nostra resistenza e pazienza. La più grande
fonte di aiuto è lo Spirito di Dio, perché è dall’alto che ci viene la nostra
forza interiore. Possiamo dire no all’angoscia, non negando la realtà ma
guardandola in faccia, nonostante sia dura. Possiamo superare il peso
dell’avversità lasciando che il tempo la trasformi. Non siamo totalmente
impotenti di fronte alla sofferenza. La nostra relazione con Dio nasconde delle enormi
risorse contro la sofferenza, contro la confusione e la disperazione. Restiamo
interiormente liberi, non assecondiamo le mosse dell’avversario, di colui che
cerca da sempre e per sempre di dividerci da Dio, non permettiamo che la nostra
mente sia ridotta di nuovo in schiavitù. Trasformiamo la nostra sofferenza in un
risveglio. Dio non impedisce la sofferenza, ma impedisce che essa diventi per
noi una forza negativa.
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4.
L’ATTITUDINE DI CRISTO DI FRONTE ALLA SOFFERENZA:
Domande, domande e ancora domande sono quelle che
noi poniamo a Dio, che spesso non fornisce un’evidente risposta, o almeno una
risposta inseribile nei nostri schemi mentali. Dio però non considera mai le
nostre domande come imprudenti, considera legittimo che ci interroghiamo sulla
sofferenza. Ci offre esempi nella Scrittura del modo in cui si possono porre
domande anche audaci, senza con ciò compromettere il rapporto con Lui. Dio non
vuole sopprimere le nostre emozioni e i nostri sentimenti, vuole darci la
capacità di convogliare queste energie in una nuova direzione, che non è
silenziosa subordinazione, ma attiva cooperazione con Lui. Quella che gli Ebrei chiamano la šekinah («presenza»
di Dio) è stata offuscata, quanto a splendore, dalla rottura fra
creazione e Creatore, fra l’uomo e il suo simile, fra l’uomo e il suo
linguaggio, fra le parole e il senso che esse nascondono. Gli esempi e l’approccio che troviamo nella Bibbia
costituiscono un modo per vivere nella fede e al tempo stesso esercitare il
candore del bambino. Col tempo emergerà il senso, si potrà vedere un disegno in
quello che ci succede. Non ci sono mai parole adatte per parlare del dolore,
quello degli altri e soprattutto del proprio. C’è un lungo cammino da fare per
cercare di penetrare a fondo la complessità della condizione umana. Cristo
stesso non ha dato una spiegazione completa della sofferenza e di quello che ci
succede. Egli ci invita a esprimere il nostro dolore in tutta la sua brutalità,
ci ascolta e sa che in quei momenti ci sentiamo abbandonati. Lui stesso, nelle
circostanze della crocifissione, aveva detto: «Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato?» (Mt 27,46). E ancor prima disse: «Padre mio, se è
possibile, passi oltre da me questo calice! Ma pure, non come voglio io, ma come
tu vuoi» (Mt 26,39). Aveva accettato questo percorso, ma Gesù vedeva oltre
la propria sofferenza. La sofferenza e la morte sono uno scandalo, ma Gesù è
venuto per vincerle. Non si è limitato a guardare, ma ha acceso una luce in
mezzo a quelle tenebre. Ha operato, si è chinato con compassione, ha teso la sua
mano per guarire e risuscitare. Ha riabilitato socialmente e nel corpo i miseri,
i malati, gli handicappati. Ha decretato la vittoria dell’amore sul potere del
male, mostrando segni concreti: «Ecco io sono con voi fino alla fine dell’età
presente» (Mt 28,20).
La croce, voluta dagli uomini, fu intessuta da Dio
nell’arazzo della redenzione del mondo.
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5.
GUARDARE OLTRE:
Quando ci sentiamo soli e abbandonati, sappiamo che
Dio è là e ci dà la forza per affrontare la prova. Dio ci chiama a guardare
oltre. La figura del Cristo appeso al palo faceva comprendere e vedere tutta la
debolezza, il limite, la sofferenza del corpo. Insultato e preso in giro («Ha
salvato altri e non può salvare se stesso», Mt 27,42), abbandonato dai suoi
stessi amici attanagliati dalla paura. Ma in quel corpo martoriato c’era
l’evidenza dell’estremo atto dell’amore di Dio: la morte finalmente vinta,
nonostante l’apparenza contraria. Quando vediamo delle persone malate, trasfigurate,
quasi irriconoscibili per le tante malattie, mutilate, in sedia a rotelle,
persone con handicap vari che sono impotenti a difendersi, allora ricordiamoci
che noi cristiani siamo invitati a guardare oltre, come il malfattore che appeso
al palo non vide in Gesù solo un morente, ma intuì lo splendore della santità
del Figlio di Dio. Non dobbiamo aver paura dell’altro, perché se anche il suo
corpo e il suo spirito sono sofferenti, è uguale a noi di fronte a Dio, essendo
anch’egli immagine di Dio. La mia esperienza è che anche se Dio non appare in
modo evidente, anche se sembra muto e indifferente al nostro grido, lui resta là
e non ci abbandona. Muove i suoi figli e anche quelli che crediamo non gli
appartengano. Dio ci sostiene usando le braccia, le gambe e i cuori delle
persone, perché il regno di Dio non è lontano: è dentro di noi e deve solo
manifestarsi. La parabola degli uomini che sollevano il lettuccio
dell’amico malato, per poi poterlo calare dal tetto e presentarlo a Gesù, è un
bell’esempio di quello che si può fare per l’altro. Dio può fare cose
meravigliose mediante persone che manifestano fede, amore e compassione. Io ho
avuto di questi amici: mio marito, alcuni fratelli e sorelle in fede, una
compagna di scuola, una ex alunna, alcuni amici e amiche che non mi hanno
abbandonato, che non si vergognano di me. Vedo Dio in questi amici. La sofferenza non faceva parte dell’ordine creato da
Dio: è un’intrusa. Dio avrebbe potuto certamente impedire il primo peccato e
tutti gli altri successivi, ma proprio perché è un Dio d’amore deve lasciare
agli uomini la libertà di decidere, di scegliere. Un mondo costantemente
corretto dall’intervento divino, sarebbe diventato un mondo nel quale niente
sarebbe dipeso dalla scelta umana e dalla sua responsabilità. Sarebbe stata una
vita senza senso, senza importanza. Eppure anche questa spiegazione non basta e viene da
chiedersi: perché Dio lascia morire in carcere Giovanni Battista? Perché viene
ucciso Stefano, un giovane cristiano ripieno dello Spirito Santo che avrebbe
potuto ben operare? (At 7). Perché la chiesa, riscattata dal sangue di Cristo,
si comporta spesso in modo sconveniente? Perché il male si manifesta anche là
dove dovrebbe esserci solo luce? Perché la zizzania deve sempre inquinare il
grano? Sono domande alle quali è difficile dare una risposta pienamente
soddisfacente.
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6.
L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA:
Devo dire che spesso noi cristiani siamo
impreparati: rimaniamo scossi, spiazzati di fronte alle persone con handicap o
con altre difficoltà. È necessario però confrontarsi con il problema, non
rinunciare a un cammino di solidarietà, di condivisione del dolore. Tutti noi facciamo parte di un’umanità handicappata,
che ha bisogno di essere trasfigurata da Cristo. Ognuno ha qualche difficoltà,
di fronte alla quale è tentato di tirarsi indietro; non affrontando l’ostacolo,
si rinuncia a superarlo. Si tratta di una sfida, una chiamata alla quale siamo
invitati a rispondere per radicare la nostra fede sull’esempio di Cristo: «In
verità io vi dico che in quanto l’avete fatto a uno di questi minimi fratelli,
l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Evitare il rifiuto e l’indifferenza come pure il
pietismo, che è una forma di disprezzo più umiliante del rifiuto. Evitare
l’emarginazione e promuovere un’integrazione partecipativa dei soggetti. Non
avere stereotipi, ma lasciarsi sorprendere dai doni e dalle capacità che possono
esprimere anche i più deboli. Il confronto con l’handicap aiuta ad abbandonare i
sogni di onnipotenza e di controllo di tutte le situazioni. La presa di
coscienza della fragilità corrisponde alla capacità di vedersi così come si è.
Essa invita all’autenticità dei gesti e dei sentimenti: con chi ha un handicap è
più difficile barare, perché più degli altri è sensibile al linguaggio del
corpo, perciò i gesti devono essere in sintonia con le parole, altrimenti la
relazione à compromessa. Colui che accetta la persona con handicap accetta di
considerare la propria fragilità, che vede come in uno specchio. In questa
relazione si ritrova senza il sostegno delle convenzioni abituali, appare allora
nudo, vulnerabile.
La paura della morte è inchiodata nel cuore dell’uomo.
Più vicina e più banale è la paura di invecchiare, di dipendere dagli altri, di
non sapersela più cavare da soli. Uno dei dati di fatto dell’uomo è il limite e
la presenza di una persona con handicap lo ricorda continuamente. Bisogna andare
oltre e non avere paura. C’è una frase scritta in un libro molto conosciuto,
intitolato Il Piccolo Principe: «Non si vede bene che con il cuore,
l’essenziale è invisibile agli occhi».
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7.
CONCLUSIONE:
Il Signore ha messo tante risorse a nostra
disposizione, ci ha dato dei talenti secondo le nostre capacità (Mt 25,14).
Siamo chiamati ad agire oggi, non solo per fini egoistici, ma trovando un
equilibrio fra l’amore per se stessi e l’amore per chi ci sta intorno. Anche la
chiesa deve investire in risorse umane, fare tutto il possibile perché ognuno
dia il meglio in tutto quello che fa. Mi piace ricordare le parole di Martin
Luther King, pastore battista ucciso perché impegnato nella lotta
antisegregazionista. Nel libro La forza di amare ribadisce che ogni
persona possiede dei talenti, nessuno è inutile o di poca importanza. Riporta
poi una frase significativa di Douglas Mallock, che credo si adatti bene sia
alle persone con handicap sia alle persone «normali»: «Se non potete essere
un pino sulla vetta del monte, siate un’erica nella valle, ma siate la migliore
piccola erica sulla sponda del ruscello. Siate un cespuglio se non potete essere
un albero. Se non potete essere una via maestra siate un sentiero, se non potete
essere il sole siate una stella: non con la mole vincete o fallite, siate il
meglio di qualunque cosa siate».
È vero che un bel corpo pieno di energia,
prestante e vigoroso è importante per il proprio benessere fisico e rappresenta
un lasciapassare che facilita l’accettazione sociale. Avere un aspetto esteriore
perfetto non credo, però, che sia la cosa più importante. Ci sono persone
provate nel corpo che non lasciano avvizzire la speranza, ma combattono, hanno
il coraggio di affrontare onestamente i propri sogni infranti, cercano con tutti
i mezzi di trasformare la perdita in acquisto. Noi siamo più che solo i nostri corpi.
►
L’handicap alla luce della Bibbia {Franco Liotti}
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A2-Riflessioni_sofferenza_R56.htm
2007; Aggiornamento: 30-12-2008
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