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Antonio Angeloro
formula qui di seguito una tesi interessante e cerca di dimostrarla. A essa
risponde Nicola Martella con varie osservazioni e con un'analisi contestuale.
Siano i lettori ad approfondire ulteriormente le questioni e a trarre le sue
eventuali conclusioni.
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1. Le tesi
{Antonio Angeloro}
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Caro fratello
Nicola, shalom! Ti scrivo per porti alcune domande circa il brano
neotestamentario contenuto in 1 Cor 11,23-32, perché come tu ben sai, a torto o
a ragione, questo è ormai diventato, in alcune chiese, il «testo canonico» da
leggere prima d’accostarsi ai simboli del pane e del vino.
Ebbene, lungi dal voler aprire una inutile e sterile diatriba, circa quanto su
detto, vorrei però porti alcune riflessioni riguardanti i vv. 27-29. Come tu ben
saprai, molto spesso questi tre versi vengono adoperati per fare almeno due tipi
di discorsi.
Anzitutto per quanto riguarda ciò che dice il v. 27 «chiunque
mangerà o berrà dal calice del Signore indegnamente...»:
alcuni vedono in queste parole un parallelo con il testo di Mt 5,23s affermando
perciò che non si può o non ci si dovrebbe avvicinare ai simboli se vi è qualche
«conto in sospeso» con un fratello. In questo senso si fa un ragionamento in cui
si spiritualizza, visto il contesto del nuovo patto in cui ci troviamo, il
significato dell’altare e dell’offerta paragonandoli all’offerta di lode,
d’adorazione e di riconoscenza che s’offrono al Signore la domenica mattina
durante il culto d’adorazione.
E diverse volte, in casi di divergenze tra fratelli più «acuti» interviene
addirittura l’autorità anzianale esortando gli interessati ad astenersi dal
prendere il pane e il vino.
Non ti nascondo che quest’interpretazione mi lascia un po’ perplesso, appunto
perché se guardiamo un attimo il contesto del brano dell’epistola paolina in cui
è inserito, ci accorgiamo che evidentemente Paolo scrisse quelle parole in
riferimento alla situazione specifica in cui versavano i Corinzi e cioè il
miscuglio tra «il calice del Signore e il
calice dei demoni» (1 Cor 10,21).
Come diversi predicatori e studiosi biblici hanno detto e come risulta anche dal
contesto del discorso di Paolo, evidentemente a Corinto essendoci grande
paganesimo nonché anche magia e misticismo, tutto ciò era entrato anche nella
chiesa, probabilmente perché alcuni dei credenti del posto convertitisi
all’Evangelo provenivano proprio da tale contesto idolatra.
Per cui una spiegazione più plausibile dei v. 27-29 potrebbe a mio parere
derivare proprio da questi elementi. È possibile che quando Paolo parli
dell’esaminare se stessi volesse richiamare i Corinzi a un auto-esame interiore
che li portasse a riflettere su tale commistione con il paganesimo o peggio
ancora portarli a interrogarsi sella realtà della loro «nuova nascita» in
Cristo.
È possibile che alcuni di loro non fossero affatto credenti pur credendosi tali,
per ciò nel prendere quei simboli non discernevano il fatto che si trovassero
ancora sotto il giudizio divino, appunto «non
discernendo il corpo del Signore».
Non per nulla nell’esordio del brano che ha inizio al v. 17 l’apostolo parlando
delle divisioni, afferma che queste erano anche «utili» in un certo senso per
far emergere chi tra loro fosse un vero figlio di Dio e chi non lo fosse.
Questa a mio parere è una visione del brano più strettamente contestuale, tu
invece cosa puoi dirmi in proposito? Credi anche tu che vi sia attinenza tra
questi versi e i due versi dell’Evangelo di Matteo?
E ammesso che ci fosse, non specifica forse Paolo che «ognuno
esamini se stesso e così prenda del pane e beva dal calice»?
Non era questo autoesame una responsabilità personale d’ogni singolo credente?
Chi è un anziano, pur essendo l’autorità delegata da Dio nella chiesa, per
imporre a un membro di non accostarsi ai simboli? Non è questa una forma sottile
di giudizio umano effettuato non personalmente ma da terzi?
Ed ancora, diverse volte ho sentito dire parlando di «disciplina nella chiesa»
che quando gli anziani la esercitano, non però a livello d’allontanamento di
quel membro dalla comunità, la disciplina consiste nel vietare a quel fratello o
sorella d’accostarsi ai simboli! Credi tu che un tale tipo di «disciplina» sia
corretta? O meglio cos’ha a che fare la cena del Signore con la disciplina?
Non è questa qualcosa che chiama ognuno a un autoesame? Chi è un fratello per
ergersi a giudice se Paolo dice che il giudizio spetta al Signore, nel caso ci
s’accosti indegnamente al calice del Signore?
A cosa serve «allontanare» un membro dai simboli? A fargli capire dove ha
sbagliato? Oppure, dato che troppo spesso s’attribuisce ai simboli un valore
quasi mistico, a toglierli appunto qualcosa di «sacro», di «consacrato» (nota le
virgolette!). Non c’è in questo un forte richiamo ai riti cattolici in cui
l’ostia e il vino assumono un significato sacrale? Cosa ne pensi?
Nell’attesa di ricevere chiarimenti in merito, colgo sempre l’occasione per
incoraggiarti circa l’opera di diffusione della verità che porti avanti, pur con
tutti i limiti che ci contraddistinguono come uomini, e prego che il Signore
possa darti attraverso il suo Spirito quel necessario discernimento e luce
perché tu possa continuare, come già fai, a tenere alta la Parola di Verità!
{18-01-2008}
2. Osservazioni e riflessioni
{Nicola Martella}
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Sì, è vero: in
alcune chiese 1 Cor 11,23-32 viene letto pressoché ogni domenica prima
della Cena del Signore, quasi fosse un gesto rituale che conferisce solennità e
valore a ciò che si compie subito dopo. Non significa certo camminare «in novità
di vita» (Rm 6,4). Ciò che dovrebbe essere un atto di «ricordo comunitario»,
rischia anch’esso di diventare un rito sempre uguale e ripetitivo.
Quanto a «chiunque mangerà o berrà dal calice
del Signore indegnamente» (v. 27), ciò
dev’essere contestualizzato all’interno della lettera. Paralleli con
Mt 5,23s fanno pensare a reminiscenze non solo cattoliche, ortodosse o
protestanti, ma anche massimaliste (darbiste) che vedono nel tavolo («mensa
del Signore»; 1 Co 10,21) una sorta d’altare sullo stile del tempio. Non
c’era nessun altare nell’ultima pasqua di Gesù né nelle chiese in casa del primo
secolo. La sala di riunione non è la «casa del Signore» (espressione mai usata
nel NT) né il tempio, come sento a volte dire da predicatori e credenti (!), ma
lo sono invece i credenti stessi nel loro insieme (1 Cor 3,16s; 6,19).
Il mangiare indegnamente si riferiva certamente a ciò che sta scritto in 1 Cor
10. Paolo ingiunse ai Corinzi di fuggire l’idolatria (v. 14) e poi chiese
retoricamente: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è egli
la comunione col sangue di Cristo? Il pane, che noi rompiamo, non è egli la
comunione col corpo di Cristo?» (v. 16); poi concluse: «Siccome v’è un
unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo
tutti a quell’unico pane» (v. 17). Poi portò come illustrazione il fatto che
i sacerdoti nel tempio, mangiando i sacrifici, avevano «comunione con l’altare»
(v. 18). Il parallelismo era chiaro anche per chi mangiava ciò che era
sacrificato agli idoli: chi lo faceva aveva «comunione con i demoni» (vv.
19s). Perciò concluse: «Voi non potete bere il calice del Signore e il calice
dei demoni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei
demoni» (v. 21).
In tal senso, «mangiare o bere indegnamente» si realizzava mediante un
comportamento idolatra o sincretistico, cosa che rendeva il singolo «colpevole
verso il corpo ed il sangue del Signore». Perciò Paolo raccomandò pure che
ognuno provasse se stesso (v. 28), poiché si trattava di mangiare e bere
«un
giudizio su se stesso,
se non discerne il corpo del
Signore» (v. 29). In Corinto alcuni avevano sperimentato le conseguenze di
tale giudizio per mancanza di discernimento: «molti
fra voi sono infermi e malati e parecchi
muoiono» (v. 30). Era una vera e propria emergenza!
Portare le questioni dal campo dottrinale (idolatria) a quello morale
(divergenze tra fratelli, ecc.) rende il pane e il vino qualcosa di speciale
(torniamo alla sacralità levitica), la Cena del Signore diventa una specie di
sacramentalismo attenuato e un premio per i «buoni» (che magari possono cantare
«O gioia dei puri…»), e gli anziani una specie di poliziotti che decidono chi si
accosta e chi si deve astenere. Dal «provi l’uomo se stesso e così mangi…»
(v. 28), si è passati al «provi il conduttore gli altri, se possono mangiare…».
Se si è onesti, bisogna ammettere che nel brano non viene posta alcuna
precondizione morale né viene ingiunto alcun compito di sorveglianza particolare
riguardo alla Cena del Signore: era un atto comunitario di mangiare insieme
fra persone che si conoscevano e che dovevano avere la buona creanza di
aspettarsi reciprocamente (v. 33) e non di abbuffarsi (v. 34).
La «gnosi» (conoscenza) era un’ideologia e una spiritualità esoterica
sincretistica che giudaizzava e cristianizzava concetti, dottrine e pratiche del
paganesimo. Cose simili le troviamo oggigiorno nella New Age e in frange
sincretistiche del carismaticismo, oltre che nella spiritualità popolare
impregnata di cristianesimo (particolarmente del cattolicesimo) in riti come il
vudù, la santeria, l’animismo e il polisantismo. A Corinto si formarono nella
chiesa due correnti contrapposte di gnosticismo: la gnosi materialista affermava
che era lecito mangiare nei templi pagani, poiché l’idolo non è nulla (1 Cor
10), e addirittura di andare dalle prostitute (1 Cor 6,12ss), poiché ormai si è
salvati; la gnosi spiritualista vedeva invece in ogni cosa una fonte di
contaminazione, anche nelle cose legittime come i rapporti coniugali (1 Cor
7,1). Era un caso che si vantassero proprio a Corinto di tanti carismi
spettacolari, di superapostoli e praticassero poi cose del genere?
In 1 Cor 11,18 si parla di «quando v’adunate in assemblea» e del
fatto che vi fossero in tale «assemblea solenne» delle
divisioni. Bisogna capire che la vita comunitaria avveniva allora nelle
case, e in una città c’erano molte «chiese in casa» (cfr. Rm 16). Il raduno «in
assemblea» era un fatto concordato insieme da tutti i conduttori delle chiese in
casa e avveniva solo quando c’era il consenso, l’occasione (p.es. la pasqua; 1
Cor 5,7s) e il posto fisico capiente (Rm 16,23). Le «divisioni» (anche diversi
orientamenti teologici e preferenze; 1 Cor 1,12; 3,4) erano possibili proprio
perché le diverse «chiese in casa» erano degli «orticelli», dove era possibile
sviluppare tendenze differenti nello stesso luogo (cfr. 3 Gv). Ciò permetteva
anche lo sviluppo del settarismo (1 Cor 11,19). Quindi nulla di nuovo rispetto a
oggi. Solo che oggigiorno in un certo luogo di solito non ci sono più «chiese in
casa» ma varie comunità e varie denominazioni.
Quella della «disciplina nella chiesa» che consiste nel vietare a
qualcuno i simboli, è singolare. Da una parte c’è la tendenza massimalista
(darbista) a considerare la partecipazione di un «peccatore» ai simboli come una
contaminazione della «tavola del Signore», ossia dell’«altare evangelico».
Dall’altra c’è una singolare tendenza a dare al pane e al vino un significato
particolare quasi «sacramentale». Se la Cena del Signore è un «ricordo», perché
proibirla a un credente? Se la si proibisce a qualcuno e la si usa come mezzo
punitivo, allora si nutre ancora un carattere sacrale veterotestamentario che
immagina la sala di culto come un tempio, il tavolo come un altare e il pane e
il vino come un sacrificio. Si tratta di una sacralità e di un sacramentalismo
cattolici di ritorno!? In Israele però la pasqua non si mangiava nel tempio, ma
in famiglia!
La Cena del Signore non ha nulla a che fare con la disciplina. Esegeticamente
non vi è nessun nesso fra loro. A pasqua fra gli Ebrei in una casa non si
escludeva nessuno dei circoncisi.
In certe chiese si nega la Cena a credenti che non rispecchiano certi canoni di
«normalità morale», ad esempio, a quelli convertiti dopo un divorzio e un
nuovo matrimonio, creando peccatori di serie «A» e «B». In altre chiese si
proibisce i simboli anche a chi, in un momento di debolezza o di sbandamento, ha
sposato un non-credente, sebbene poi si sia ravveduto e pentito. Questo è il
retaggio di una visione sacrale e quasi sacramentale della vita di chiesa, che
prende a prestito al tempio (all’antico patto) i riti e il loro significato per
applicarli all’assemblea messianica (al nuovo patto).
Abbiamo visto che nel testo Paolo poneva accenti diversi da ciò. Egli
ingiungeva un’analisi personale, che essa aveva a che fare con la commistione
spirituale fra Cristo e Beliar (2 Cor 6,14ss) e che sarebbe stato Dio a
giudicare i singoli con malattie e morte, come già faceva nella sincretistica
chiesa di Corinto (1 Cor 11,29ss).
È chiaro che nella chiesa bisogna affrontare con discernimento, giustizia e
misericordia le questioni morali e dottrinali. Il NT ci insegna che cosa
fare nel caso in cui qualcuno cade in un peccato morale, si svia dalla sana
dottrina, fa posto al diavolo, si fa sedurre da false dottrine o diventa una
persona settaria.
Tuttavia non è corretto usare la Cena del Signore come una leva morale,
un premio per i «buoni» e da cui tenere lontani i «cattivi», una clava
disciplinare e così via. I conduttori devono vegliare sul gregge, esortando,
incoraggiando e ammonendo, ma non devono trasformarsi in investigatori morali,
in poliziotti e in giudici implacabili riguardo alla Cena del Signore. Essi
devono spingere i credenti a un’autoanalisi (2 Cor 13,5) e ravvisare la loro
personale responsabilità dinanzi al Signore, se mischiano la mensa del Signore
con la mensa degli idoli. Non devono rendere però la Cena comunitaria, che
dev’essere accompagnata dall’amore e dalla gioia comune, in un momento di
angoscia, in un atto penitenziale e in una auto-flagellazione. Sarebbe come
andare a una festa di matrimonio con un atteggiamento consono a un funerale.
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Indegni per la Cena del Signore 2 {Tonino Mele} (A)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Indegni_Cena_Sh.htm
28-02-2008; Aggiornamento: 05-04-2008
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