1. Alcune osservazioni
{Michele Papagna}
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Entriamo in tema
Caro Tonino, ho letto il tuo articolo e l’ho
riletto. Non trovo nulla da eccepire nella tua analisi biblica, che apprezzo
prima di tutto perché parte dai dati biblici a disposizione e li affronti
correttamente; e in secondo luogo perché suggerisci nella parte conclusiva
alcuni consigli pratici dettati da saggezza spirituale. In particolar modo al
termine dell’analisi di 1 Corinzi 10,14-22, fai l’importante distinzione del
significato di comunione tra il calice (vino) e il pane. Quindi concordo con le
tue conclusioni.
Infine apprezzo il tuo lavoro, perché mantiene bassi i
toni del discorso preferendo aiutare a risolvere questioni di carattere
contingente.
Alcune osservazioni
Non aggiungendo nulla riguardo al tuo articolo, voglio
fare qualche osservazione aggiuntiva che forse può essere utile per orientarsi o
per affrontare o approfondire la questione.
■ Il termine «calice» è una figura retorica
chiamata «metonimia»: l’allusione al contenitore ne indica il contenuto (come
«croce» o «sangue di Cristo» allude alla morte di Gesù Cristo). Perciò è inutile
accanirsi sul «calice», come molti fanno.
■ In Luca 22,20 è parlato d’un calice (vino) che è
passato tra i discepoli presenti e a cui i presenti hanno bevuto. Questo
brano è chiaramente descrittivo e non ha finalità prescrittive. Pertanto non
dobbiamo usarlo come pretesto per farne né una dottrina né una prescrizione,
oggi. In quella prassi traspare comunque la componente di condivisione, la
compartecipazione allo stesso calice, come espressione d’appartenenza a una
stessa corporazione o famiglia.
■ Quando molti, fra cui il sottoscritto,
preferiscono il calice ai bicchierini, non lo fanno perché «la Bibbia
prescrive il calice!», come suggerito nell’articolo (è chiaro che parlo delle
realtà che conosco). A dire il vero, sebbene corretta la tua analisi, a mio
avviso non coglie pienamente il perché oggi molte assemblee rifiutino l’uso dei
bicchierini, preferendo i calici.
Infatti nelle assemblee grandi raramente s’utilizza un
solo e unico calice ma più calici (o bicchieri) per la distribuzione del
vino, senza che ci si crei il problema del numero dei calici. Il calice non ha
niente di sacro in sé, né è prescritto come indispensabile.
Piuttosto il bere allo stesso calice (o a più
calici, nell’occorrenza), a mio parere esprime visibilmente il senso
d’appartenenza reciproca alla stessa famiglia (come il testo di Luca 22,20
innanzi citato). Ci tengo a precisare: questa è una preferenza personale che non
deriva da prescrizioni bibliche.
Come illustrazione, leggendo Giovanni 4,9,
quando è detto che i Giudei non hanno relazione con i Samaritani, l’espressione
greca è synchrôntai, che deriva da una espressione che significa
«bere allo stesso calice». Ecco questo è il senso che io ne do: nel bere allo
stesso calice alla cena del Signore io voglio esprimere esteriormente questo
senso d’appartenenza reciproca alla medesima famiglia, ribadita anche nella
pratica del prendere da uno stesso pane, e non da pezzettini di
pane pretagliato (comunque hai fatto bene a distinguere il significato di
comunione tra il calice e il pane).
A scanso d’equivoci non intendo dire che
laddove si beve ai calici, ci sia più comunione tra i credenti rispetto a dove
si beve ai bicchierini.
■ In questo senso, non essendoci prescrizioni bibliche
ma solo preferenze personali (sia per i bicchierini che per il calice), ogni
chiesa deve valutare quale prassi adottare, senza scadere in motivazioni
puerili e considerando «la causa di forza maggiore» nelle cose secondarie
(quelle non specificate nelle Scritture) e nelle preferenze personali, che è
l’amore per il fratello (Romani 14,13-23).
Fin qui le considerazioni mie sull’ottimo articolo
scritto da te sul tema in oggetto.
Alcuni approfondimenti
Vorrei infine precisare una cosa: quando parlo di
rammemorazione in senso d’anamnesi, mi riferisco al termine greco
anámnēsis, che il Nuovo Testamento utilizza per parlare di questa
commemorazione (fate questo in memoria, in ricordo, in rammemorazione…). E
questo termine è diverso dal termine greco che indica il memoriale (gr.
mnēmósynon, p.es. Matteo 26,13; Atti 10,4). Il termine ricordare (gr.
anámimnēskein) indica un’azione soggettiva che il credente deve fare davanti
al pane e al vino, mentre il termine memoriale (gr.
mnēmósynon) indica un segno oggettivo che serve quale memoriale e che non
coinvolge soggettivamente il credente. {22-10-2009}
2. Le risposte
{Tonino Mele}
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Caro Michele, anzitutto, grazie per aver riconosciuto il valore esegetico del
mio lavoro: lo prendo come una conferma e un incoraggiamento a proseguire per la
stessa strada.
Mi son poi piaciute le tue osservazioni aggiuntive, non
tanto perché confermano le mie conclusioni, ma perché portano spunti esegetici
interessanti, che credo completano veramente il quadro. In particolare mi hanno
«colpito» le considerazioni sulla metonimia e sull’anámnēsis, che credo
dovresti approfondire ulteriormente. Permettimi solo qualche precisazione
In merito a Lc 22,20: non credo che sia «un
brano descrittivo», piuttosto, essendo che il brano (insieme ai suoi paralleli)
riporta l’istituzione della Cena da parte di Gesù, credo che sia «altamente
prescrittivo, ma con elementi descrittivi»; e questi ultimi non vanno
sopravvalutati più di quanto l’insegnamento positivo di Gesù lo consenta. A
conferma di ciò è bene rilevare che in 1 Corinzi 11, Paolo s’avvale del
«regolamento» della Cena già presente nella sua istituzione, e da quello parte
per correggere le storture che s’erano venute a creare a Corinto (cfr. 11,23-27
«Poiché ho ricevuto… perciò…»).
Tu affermi che «bere allo stesso calice (o a più
calici, nell’occorrenza), a mio parere esprime visibilmente il senso
d’appartenenza reciproca alla stessa famiglia (come il testo di Luca 22,20
innanzi citato)». Riguardo a tale argomento fai bene a precisare che «è una
preferenza personale che non deriva da prescrizioni bibliche». Io non avrei
niente da eccepire verso questa preferenza, perché so che il medesimo testo può
avere diverse applicazioni (a seconda delle situazioni e dei bisogni). Faccio
comunque notare che Paolo attribuisce al pane e non al calice questo
senso d’appartenenza al corpo di Cristo, cioè alla chiesa (1 Cor 10,16-17),
mentre «il calice» rappresenta più propriamente la «comunione col sangue di
Cristo», quindi l’aspetto in parte collettivo («il calice che noi
benediciamo»), ma forse più propriamente soggettivo e individuale di questo
simbolismo. Comunque sia, si deve ricordare che un’applicazione secondo le
proprie preferenze individuali o locali, non è normativa, cioè valida per tutti
allo stesso modo. E non è superfluo ricordare che Gesù, quella sera, usò il
calice con «i dodici»
(Mt 26,20; Mc
14,17; Lc 22,14), cioè con un gruppo ristretto e selezionato, con cui
aveva vissuto a stretto contatto per tre anni, giorno e notte. Se vogliamo
applicare in modo indiscriminato l’uso del calice, cioè a tutti e dovunque,
credo che dobbiamo un attimino confrontarci con questo dato di fatto.
Ciò che dici su synchrôntai, termine usato in
Gv 4,9 è interessante, però ho invano cercato una fonte che confermi tale
notizia. Mi puoi dire da dove l’hai attinta?
In parte hai anche ragione nel dire che il mio articolo
«non coglie pienamente il perché oggi molte assemblee
rifiutino l’uso dei bicchierini, preferendo i calici». Infatti, lo scopo
dell’articolo non era cogliere o «avversare» questo dato, come del resto hai
riconosciuto pure tu col tuo commento sul livello dei «toni» da me usati.
L’articolo è nato perché la mia chiesa locale si è posto il problema, e mi è
parso più consono alla mia identità di cristiano di indagare tale problema, a
partire da ciò che i testi biblici affermano, piuttosto che da ciò che altre
assemblee affermano. Questo è anche più consono al principio dell’autonomia
della chiesa locale, tanto caro alle Assemblee e che considero tra gli
aspetti più preziosi di quest’eredità. Del resto, in merito a ciò che pensano le
altre assemblee è interessante la domanda che si pone l’ex-studentessa che ha
aperto la discussione in questione nel sito «Fede controcorrente»: «È possibile
(come afferma qualcuno) che nell’uso dell’unico bicchiere si nasconde qualche
dottrina?».
Grazie ancora per averci dato questi ottimi spunti di
riflessione. {24-10-2009}
3. Ulteriori osservazioni
{Michele Papagna}
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Caro fratello Tonino… Vengo alle tue osservazioni, su cui concordo. È vero ciò
che tu dici: Gesù istituì la Cena del Signore, e pertanto quei testi che ne
parlano sono «altamente prescrittivi, ma con elementi descrittivi». Mi
riferivo alla descrizione di certe forme. Pensa che certe volte mi tocca
«combattere», quando qualcuno afferma che la Bibbia ordina la preghiera della
benedizione tra il passaggio del pane e il passaggio del calice (vino).
Lo stesso dicasi per quanto riguarda la
regolamentazione del caso di 1 Corinzi 11. Concordo pienamente!
Riguardo al termine synchrôntai (Giovanni 4,9),
è una parola apaxlegomena, cioè che si trova una sola volta nel NT, che deriva
da una espressione che significa «bere allo stesso calice».
Ecco le fonti a cui ho attinto, ossia libri in mio
possesso:
■ M. Henry - F. Lacueva, Juan, Commentario
Esegetico Devocional a toda la Biblia (ed. Clie, Spagna, 1983), Tomo 10, p. 93
(questo commentario è basato sulla versione di M. Henry, ma arricchita e
aggiornata da Francisco Lacueva, uno dei migliori e prolifici studiosi
evangelici di lingua ispanica, già erudito gesuita prima della sua conversione):
«Infatti i Giudei non hanno relazioni con i Samaritani, - lett. non usano
in comune le stesse stoviglie». Seppure il commentario devozionale, F. Lacueva è
riconosciuto per il suo rigore esegetico.
■ W.F. Arndt - F.W. Gingrich, A
Greek – English Lexicon of the NewTestament and Other Early Christian Literature
(ed. The University of Chicago Press, 19792). Alla voce
synchráomai, riporta l’uso nei classici che preferiscono «…use [vessels
for food and drink] together» (= «…usare insieme [vasi per cibo e bevande])». È
la fonte più scientifica.
■ A.T. Robertson, Juan
y Hebreos, Imagenes Verbales en el Nuevo Testamento (ed.
Clie, Spagna, 1990), Tomo 5 [trad. spagnola di
Word Pictures in the New Testament]:
synchrôntai, presente indicativo in voce media di
synchráomai, composto in koiné letterario, solo qui nel NT… la
samaritana forse fu sorpresa che Gesù fosse disposto a bere dal suo vaso,
calice. Questo autore è stato uno dei maggiori studiosi di greco del NT.
■ E.F. Harrison, Comentario Biblico Moody (ed.
Portavoz, USA 1971) [ingl. Wycliffe Bible Commentary of New Testament]: «…al
detto della donna è stato attribuito un senso ridotto, — i giudei non usano
stoviglie in comune con i samaritani (D. Daube, The New Testament and Rabbinic
Judaism, pp. 35-382, citato anche in W.F. Arndt e F.W. Gingrich). Everett
Harrison uno studioso molto serio, che tra l’altro cita la fonte del
cattedratico Daube, a cui attinge anche la fonte n° 2.
■ D. Guthrie, Commentario Biblico (Ed. Voce
della Bibbia, Modena 1976), vol. 3. Questo autore è stato studioso rinomato.
Sul web ho trovato altri riferimenti d’autori seri (p.es. Donald Carson), ma non
ho reputato opportuno riportarli. Anche il dotto studioso Alfred Edersheim,
sebbene non in modo dettagliato, ne dà lo stesso senso, facendo riferimento agli
scritti rabbinici in The Life and Times of Jesus the Messiah. Colgo
l’occasione per salutarti caramente. {26-10-2009}
4. Osservazioni e obiezioni
{Nicola Martella}
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1. LE QUESTIONI DI GIOVANNI 4,9
Entriamo in tema
Qui ci riferiamo a Giovanni 4,9. Michele Papagna
insiste su questo brano e su uno dei verbi (synchrôntai), ivi contenuti,
e fa ripetutamente leva su di loro come fossero una delle maggiori chiavi di
volta nel ragionamento ritenuto probatorio. Uso, perciò, l’occasione per dare
qualche elemento di ermeneutica e di esegesi, ossia di interpretazione e
spiegazione biblica, usando proprio tale esempio. Infatti, come vedremo,
impostare tutto un ragionamento su un verbo, che per di più ricorre una sola
volta in tutto il NT, è usare un coltello a doppio taglio o un boomerang. Tale
ragionamento è facile da smontare.
Le tesi ribadite
Michele Papagna ha affermato: «Come illustrazione,
leggendo Giovanni 4,9, quando è detto che i Giudei non hanno relazione con i
Samaritani, l’espressione greca è
synchrôntai, che deriva da una espressione che significa “bere allo stesso
calice”».
Tonino Mele gli ha risposto così: «Ciò che dici su
synchrôntai, termine usato in Gv 4,9 è interessante, però ho invano cercato
una fonte che confermi tale notizia. Mi puoi dire da dove l’hai attinta?».
Per risposta Michele Papagna ha ribadito: «Riguardo al
termine synchrôntai (Giovanni 4,9), è una parola apaxlegomena, cioè che
si trova una sola volta nel NT, che deriva da una espressione che significa
“bere allo stesso calice”». Poi egli riporta una serie di fonti che dovrebbero
chiarire la cosa.
Una prima reazione
Analizzando tali fonti nel modo come sono state
riportate da Michele Papagna, devo constatare purtroppo che, di là dalle
dichiarazioni, tali fonti non dimostrano un bel nulla. Ad esempio, qual è il
termine in synchráomai
che dovrebbe significare «vessel» (vaso,
conca,
recipiente, ecc.)? Sinceramente sono rimasto
deluso. A me sembra che tali studiosi, nel modo come sono stati citati da
Michele Papagna, si muovano in cerchio, aderendo a una convenzione, che tutti
menzionano, ma che in fondo nessuno ha veramente analizzato fino in fondo.
Anticipo che non ho trovato né nel NT né nel greco
classico un sostantivo chráos o simile, derivante dal verbo
synchráomai e che significhi «calice, coppa, bicchiere», ma neppure
«stoviglie, vasellame» o simili. I sostantivi greci per cose simili sono in
greco, dépas,
éptōma, skyfos e potērion; i primi tre non ricorrono mai
nel NT. Anche i termini greci per stoviglie o vasellame, ossia skeyē (At
27,19 arredi della nave) e kéramos (Lc 5,19 qui per tegola), non hanno
qui nulla da aggiungere.
Approfondimenti
■ Gesù parlò alla Samaritana in aramaico e tale
discorso fu poi tradotto in greco. Quando si traduce, si cerca di rendere il
senso delle parole originarie così come sono usate abitualmente (il vocabolario
di Giovanni è relativamente esiguo) e non si pensa all’etimologia.
■ Appunto voler risalire all’etimologia di un
verbo, per avere argomenti da far valere, è alquanto pericoloso e può distorcere
il senso delle cose dette effettivamente da parte di chi parla. Chiunque si
arrampica così sugli specchi, usando l’etimologia, rischia presto di cadere.
Tali argomenti, sebbene al momento mirabili e luminosi, diventano spesso
boomerang che colpiscono chi li usa, mostrandone l’eventuale abuso. Non si può
fare di una semplice donna samaritana un’esperta di etimologia!
Ecco qui di seguito qualche esempio al volo. Quando
qualcuno dà a suo figlio il nome «Claudio», non pensa a «claudicante», ma al ben
suono. Abitualmente chi parla di prosopopea «discorso di una cosa inanimata»,
quale figura retorica, non sta pensando a prósōpon «faccia, maschera», da
cui deriva. Il giornalista che scrive della bella coreografia di una certa
commedia, non pensa al
chorós «coro, danza». Lo stesso dicasi di parole latine o vetero-italiane
che troviamo nella lingua corrente, ad esempio: sospirare «struggersi,
lamentarsi» da
spirare «soffiare (del vento o «spiro»); si veda anche quest’ultimo verbo
nel senso di «esalare» (l’ultimo respiro), per non parlare di tutte le
composizioni che tale verbo ha con gli affissi (inspirare, respirare,
aspirare, cospirare, traspirare). Chi pensa all’etimologia
quando qualcuno traspirando odio, ispirato da un’ideologia di morte, aspira a
fare del male ai presunti avversari, cospirando con i suoi complici? Inoltre chi
pensa al «pane», quando usiamo termini come compagno, accompagnare, scompagnare
e derivati? Infine, chi pensa normalmente a «sorte», quando parla di consorte,
consorzio, consortile, consorziarsi e simili? Perciò chi pensava mai ad altro
(stoviglie?), quando usava il raro e singolare verbo
synchráomai?
Kelch
Pur volendo concedere che la Samaritana avesse mai
parlato in greco con Gesù, quando lei usò il verbo
synchráomai, non pensava certo all’etimologia! Inoltre in greco lo spettro
dei significati è molto ampio: «valersi di, usare, approfittarsi; prendere in
prestito, noleggiare; avere relazione con, avere a che fare con, frequentare,
commerciare con». Per di più ella era in una situazione doppiamente
imbarazzante: uscì di casa per prendere l’acqua in un’ora, in cui le altre
persone del villaggio erano in casa (a causa della sua convivenza); si trovò a
parlare con un uomo, cosa imbarazzante per una donna d’allora; per di più tale
uomo era uno dei Giudei, verso cui non correva buon sangue. È difficile pensare
a una Samaritana etimologa in tali circostanze.
■ Inoltre faccio notare una «cosuccia» abbastanza
significativa. In Giovanni 4,9 l’espressione «Infatti i Giudei non hanno
relazioni con i Samaritani», a cui si fa riferimento come argomento, non
esiste in molti manoscritti antichi; essa è presumibilmente una glossa
esplicativa marginale di un redattore, che poi dai copisti successivi è finita
nel testo, credendo appartenesse lì. In diverse versioni greche tale espressione
è messa tra parentesi quadre, proprio per segnalare tale questione; la nota
dell’apparato critico spiega il resto.
■ Un’altra osservazione è la seguente. Il verbo
synchráomai non ha nulla a che vedere con il termine
potērion «bicchiere, calice», usato nel NT durante l’ultima Pasqua
del Messia (Mt 26,27 [cfr. vv. 39.42]; Mc 14,23 [cfr. v. 36]; Lc 22,17.20 [cfr.
v. 42]; 1 Cor 11,25 [cfr. vv. 26ss; 10,16.21]).
Un termine chráos o simile non l’ho trovato nel
greco del NT né in quello classico. Il verbo chráō
significa nel medio chráomai (da cui deriva
synchráomai) «prendere / ricevere in prestito / in uso», e anche, tra altre
cose, «usare con qualcuno, trattate con qualcuno, avere familiarità / contatto
con qualcuno»; ha quindi poco da contribuire col tema.
Tutto ciò non ha neppure a che fare termini simili a
potērion, ad esempio: vasaio (kerameus; Mt 27,7.10; Rm 9,21), vaso (keramikós
recipiente di vasaio; Ap 2,27), brocca (kerámios; Mc 14,13 [diverso da
vv. 23.36]; Lc 22,10) e tegola (kéramos; Lc 5,19); si veda in italiano
ceramica). Probabilmente alcuni studiosi hanno preso fischi per fiaschi.
Quindi, volendo fare riferimento all’etimologia e non all’uso, come si fa a
costruire tutto un ragionamento su un termine che compare solo una volta nel NT
e all’interno di un’espressione che manca in molti manoscritti antichi? A ciò si
aggiunga che meraviglia che si tragga da una radice verbale così astrusa (chráomai)
un argomento che si ritiene così significativo!
2. RAMMEMORAZIONE E MEMORIALE: Michele Papagna crede sia
importante fare una distinzione fra rammemorazione, commemorazione, memoriale e
simili. Anche questo punto è sembrato essere un aspetto importante, di cui anche
Tonino Mele è rimasto affascinato, essendo un pensiero nuovo per lui. Per questo
è necessario approfondire la questione.
■ Il termine greco mnēmósynon «ricordo» ricorre
nel NT solo tre volte. Gesù disse della donna, che lo unse, che il suo gesto
sarebbe stato «raccontato a ricordo [o in memoria] di lei» (Mt 26,13; Mc
14,9). L’angelo disse a Cornelio: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono
salite come un ricordo [o in memoria] davanti a Dio». Come si vede, tale
termine non è messo mai in connessione con la Cena del Signore nel NT. Il
termine è usato in modo molto positivo.
■ Il termine greco anámnēsis «ricordo» ricorre
nel NT solo in Lc 22,19 («fate questo in memoria di me»; = 1 Cor 11,24s);
Eb 10,3 («è rinnovato il ricordo dei peccati»).
■ Il verbo greco anámimnēskein «ricordare»
ricorre nel NT in Mc 11,21; 14,72; 1 Cor 4,17; 2 Cor 7,15; 2 Tm 1,6; Eb 10,32.
■ A ciò si aggiungano, ad esempio, termini come
mnēia «ricordo, menzione» (Rm 1,9; Ef 1,16; Fil 1,3; 1 Ts 1,2; 2 Tm 1,3, Flm
1,4…), mnēmeion «sepolcro (quale monumento del ricordo)» (Mt 8,28; 23,29;
27,52s.60; 28,8…), mnēmē «ricordo» (2 Pt 1,15), mnēmoneuein
«ricordare» (Mt 16,9; Lc 17,32; Gv 15,20; Ap 2,5; 3,3…).
Tutti questi sostantivi e verbi provengono dalla stessa radice (gr. mnē-)
e rappresentano solo delle nuance e delle variazioni dello stesso leitmotiv.
Faccio notare che tra l’espressione «fate questo in
memoria di me» (anámnēsis Lc 22,19) e «sarà raccontato a ricordo
[o in memoria] di lei» (mnēmósynon
Mt 26,13; Mc 14,9), non c’è nessuna differenza sostanziale. I due termini sono
semplicemente sinonimi, ad esempio al pari di «divenire» e «diventare»; nel
nostro caso, si tratta come «ricordare», «rammentare», «commemorare», «riportare
(o fare venire) alla memoria», «fare mente locale». Niente più e niente meno.
Inoltre, visto che nel NT mnēmósynon
non è mai usato per la Cena del Signore, fare un paragone tra ciò e anámnēsis,
non ha senso. Dire che l’uno (anámnēsis) «coinvolge soggettivamente il
credente» e l’altro (mnēmósynon) no, rientra nella sfera delle cose
soggettive, senza alcun riscontro oggettivo. {27-10-2009}