Paolo Brancè prende posizione qui riguardo all’articolo «Velo
fra assolutismo e banalizzazione»; lo premettiamo nel seguente
confronto, come pure la traduzione letterale ivi presente. La formattazione del
suo articolo, i termini evidenziati e le correzioni sono della redazione. Il suo
contributo dovrebbe trovare posto nel tema di discussione «Velo
fra assolutismo e banalizzazione? Parliamone», ma a causa della sua
lunghezza e della sua specificità, lo mettiamo extra. Tralasciamo d’approfondire
che cosa significhi «profetare», indicando qui solo che significa «proclamare in
modo ispirato ed estemporaneo», e rimandiamo in merito all’articolo «Profetare
significa insegnare? Il ruolo della donna nel culto».
1. Le tesi
{Paolo Brancè}
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Una breve riflessione esegetica sul velo e la sua attualità nella chiesa
d’oggi
1 Corinzi 11 è centrato sul tema del culto pubblico, tema che è anche affrontato
nei capitoli 12-14. Probabilmente Paolo risponde ad alcune domande poste da
alcuni della chiesa.
Per comprendere correttamente il testo, è necessario inserirlo nel suo
contesto. Paolo sta scrivendo alla chiesa di Corinto, città greca,
economicamente florida, culturalmente ricca, moralmente riprovevole (la città
era nota per la sua licenziosità sessuale). La chiesa era formata da pochi
Giudei e un buon numero di pagani (cfr. Atti 18). Questi ultimi, sebbene
convertiti, portavano ancora con sé la propria cultura ellenistica (significa
filosofia ed eloquenza, una religiosità politeista, modo di vivere libertino).
Noi notiamo che Paolo, scrivendo questa lettera ai Corinzi, ha cercato
autorevolmente di riportare ordine e decoro in quella comunità
estremamente caotica. (Nella comunità persisteva una vita partigiana, incesto,
controversie dibattute nei tribunali civili, divieto del matrimonio, irriverenza
verso colui che era più debole nella fede con la partecipazione ai banchetti con
carne immolata agli idoli, disordine liturgico, negazione della risurrezione dei
corpi).
Il testo di 1 Corinzi 11,2-16, che stiamo esaminando riguarda la vita liturgica
dei Corinzi estremamente caotica. Paolo era stato informato che le donne
corinzie non indossavano il velo. Tutta la questione di questo testo è centrata
essenzialmente sull’indumento femminile del velo nell’atto liturgico, che dalla
cultura ebraica era entrato a far parte della tradizione cristiana, un
segno o simbolo di sottomissione al marito. Infatti, il giudaismo contemporaneo
prescriveva alle donne sposate di portare, fuori di casa, un velo sul capo quale
segno d’appartenenza e di sottomissione al marito.
La
società greca era emancipata. Tuttavia, vigeva nella buona società greca una
convenzione sociale, secondo la quale gli uomini si presentavano in pubblico con
il capo scoperto e le donne con il capo coperto. Sembra dal tono della lettera
che nella chiesa di Corinto si stava affermando una tendenza liberaleggiante,
alla quale Paolo contrappone un ideale ispirato alle abitudini più rigorose
dell’ebraismo, ma anche alle norme della tradizione più onorevole dei Greci.
Prima di procedere con l’analisi esegetica del testo, è doveroso porsi due
domande:
■ 1. Perché Paolo sta parlando dell’ordine creazionale inserito nella
questione del velo e qual è lo scopo che vuole perseguire?
■ 2. Che significato ha la questione del velo per i cristiani d’oggi?
Se leggiamo attentamente i capitoli 12-14, notiamo che Paolo sta affrontando il
disordine cultuale presente nella chiesa di Corinto. Il disordine riguarda
il modo di vestire d’alcune donne durante il culto centrato sulla preghiera e
sulla profezia, il modo dissacrante di vivere la liturgia della Santa Cena e
l’autocompiacimento dei carismatici di Corinto nell’uso del dono carismatico
delle lingue o glossolalia. Al centro di questi argomenti Paolo inserisce il
grande poema dell’Amore (1 Cor 13).
Per quanto riguarda la questione del velo, che è il tema che a noi interessa
particolarmente, Paolo esordisce con il lodare i Corinzi perché conservino la
tradizione (gr. paradoseis), che significa «insegnamento» tramandato.
La tradizione è, in effetti, l’insegnamento orale che formava una parte
importante della primitiva istruzione cristiana. La tradizione non proveniva da
Paolo, ma era stata ricevuta da Paolo, che a sua volta la trasmetteva ai nuovi
convertiti.
In seguito Paolo affronta la questione del velo come abbigliamento
femminile dei paesi orientali, simbolo della modestia e subordinazione. Secondo
Paolo, una donna corinzia, che non indossava il velo, rinunciava al decoro e
misconosceva la sua subordinazione al marito. Paolo, per illustrare l’importanza
d’indossare il velo da parte delle donne corinzie, come segno di subordinazione
al marito, espone il principio che l’ordine, contrassegnato dalla cosiddetta
subordinazione, pervade l’intero universo. Al versetto 3 Paolo afferma che il
capo d’ogni uomo è Cristo, che il capo della donna è l’uomo e che il capo di
Cristo è Dio. Cosa vuole intendere Paolo con la parola «capo»? La parola greca è
kephale. Certamente non ha qui il significato di testa in senso
anatomico. Ha, quindi, il senso traslato di vertice o cima, origine o principio
fondamentale, la persona stessa (una parte per il tutto) oppure il capo
gerarchico. Sembra essere accreditato quest’ultimo significato di «capo»
gerarchico.
È interessante notare che le relazioni Dio-Cristo e Uomo-Donna sono d’ordine
ontologico: sono solo i ruoli differenti. Dio e Cristo condividono la
stessa natura divina e la stessa dignità, ma nell’opera di redenzione Cristo è
l’incarnato Figlio di Dio, subordinato al Padre. Allo stesso modo L’Uomo e la
Donna sono uguali, condividendo la stessa natura dell’essere «Uomo», ma
nell’ordine creazionale la donna deriva dall’uomo, cioè hanno differenti ruoli
complementari all’interno della relazione tra i partner nel famiglia, in cui
l’uomo è capo in senso di servo (cfr. Ef 5,22ss).
C’è da notare che il costume d’indossare un copricapo da parte dell’uomo
ebraico nel culto è rettificato con il costume della parte più onorevole della
società greca, in cui l’uomo non indossa alcun copricapo. Infatti, l’uomo della
chiesa di Corinto non deve indossare alcun copricapo, altrimenti fa oltraggio al
suo «capo», che può essere Cristo o se stesso; mentre per la donna corinzia è
doveroso indossare il velo per evidenziare la sua sottomissione al marito,
altrimenti, non indossando il velo sarebbe come le donne soggette a punizioni o
quelle di malaffare, che vanno in giro con il capo rasato. (A quei tempi v’erano
due tipi di velo nell’Oriente antico: Il peplum, un abbigliamento che
copriva il capo e avvolgeva l’intera persona, e l’altro era quello più comune,
che copriva soltanto la faccia con l’eccezione degli occhi.)
È interessante aggiungere che Paolo fa riferimento alla fine alla pari
dignità
tra uomo e donna (vv. 11s). Ho detto in maniera esegeticamente concisa che cosa
aveva mosso Paolo nell’insistere sull’importanza dell’indossare il velo per le
donne della chiesa di Corinto; esso sembra essere anche costume di tutte le
chiese, il cui scopo era quello di ristabilire l’ordine cultuale nella
preghiera e nella profezia. (Le donne potevano pregare e profetizzare, se
rispettavano la rigida usanza dell’indossare il velo. Che cosa significa tutto
questo per noi cristiani d’oggi che viviamo in occidente, dove non è previsto
l’indossare il velo per le donne che s’aggirano per le strade, ma
l’abbigliamento è estremamente diverso?)
Quello che Paolo aveva in mente, era stabilire l’ordine nella chiesa caotica di
Corinto; e, allora, nel culto la diversità sessuale nella relazione
uomo-donna era marcata dal velo.
Oggigiorno al posto del velo, che è un abbigliamento culturalmente superato,
le donne possono evidenziare nel culto il loro portamento decoroso,
evitare ad esempio le critiche in pubblico rivolte al marito, quando le cose non
vanno bene in famiglia, evitare di avere atteggiamenti di predominio, modi
sprezzanti, insomma indossare i pantaloni, mentre il marito è costretto a
indossare la gonna. Al contrario, il marito come «capo» della donna è
chiamato a evidenziare il carattere sacrificale di Cristo (regge il paragone
nella relazione tra Cristo e la Chiesa e tra marito e moglie, ossia Cristo è
Capo della Chiesa, per lei ha dato tutto, ha sacrificato la sua vita; così è
anche il senso del rapporto uomo-donna nella chiesa, l’uomo è Capo della donna,
in quanto servo che si sacrifica per arrecare a lei tutto il bene e l’amore di
cui ha bisogno).
Il velo per Paolo era una convenzione culturale, che stranamente, lui —
che è stato il paladino della libertà in Cristo, che si è sbarazzato di diversi
simboli cultuali ebraici dell’AT, come la circoncisione e le tradizioni
alimentari della purità — ha voluto conservare; e questo è accaduto forse perché
il velo era un segno fortemente visibile d’una società onorata e onorabile,
segno che ai nostri giorni nostri nella nostra società occidentale non ha più
ragione d’essere. Ma rimane comunque il fatto che l’ordine nel culto e la
diversità sessuale
deve essere comunque visibile nella vita ecclesiale. {5 settembre 2009}
2. Osservazioni e obiezioni
{Nicola Martella}
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Ringrazio Paolo Brancè, mio studente di vecchia data presso l’Ibei, perché
confrontarsi pacatamente su temi biblici è la via per avvicinarci alla verità
scritturale. Il mio interlocutore ha spiegato molte cose interessanti riguardo
all’ambiente culturale d’allora, sia fuori sia dentro la chiesa. La spiegazione
di alcuni termini greci aiuta senz’altro nella comprensione. Nonostante ciò,
alla fine della lettura del contributo, la mia «anima esegetica» non è stata del
tutto appagata. Pongo perciò alcuni interrogativi che possono aiutare
maggiormente nella discussione.
1. Principio culturale o teologico?
Il mio interlocutore afferma che l’uso del velo provenga dall’ebraismo.
Poi, però, per spiegare che gli uomini non sono obbligati a velarsi il capo
durante il culto, fa riferimento a costumi greci. È una tesi
interessante, ma in 1 Corinzi 11 Paolo non usò criteri culturali; se così fosse,
dovrebbero essere chiari ed evidenti nel testo o nell’intera epistola.
Analizzando il testo, si evincono solo i seguenti principi come motivazione al
fatto che l’uomo debba pregare e «proclamare» a capo scoperto, ma la donna col
capo velato.
■ 1.
Principio teologico: L’uomo è immagine di Dio, la donna lo è dell’uomo,
provenendo ella da lui in origine (vv. 7s).
■ 2.
Principio dell’autorità: Ella deve velarsi per mostrare l’autorità da cui
dipende, e ciò a motivo degli angheloi «inviati, messaggeri» (umani o
celesti?; v. 10).
■ 3.
Principio del sentimento naturale: Per natura alla donna è data la chioma
come velatura del capo, all’uomo no (vv. 13ss).
■ 4.
Principio dell’universalità ecclesiale: Né la squadra apostolica di Paolo né
le chiese di Dio avevano l’usanza di far pregare le donne senza il capo velato.
■ 5.
Principio culturale: Nel verso 6 c’è effettivamente l’unico argomento
veramente culturale del brano. Sembra che Paolo affrontasse con veemenza
l’omologazione delle donne all’uomo anche per quanto riguarda l’aspetto fisico.
Sebbene fosse dato alle donne per natura una lunga e folta chioma (vv. 13ss),
esse per ribadire le loro emancipazione in Cristo e che in Lui non c’è maschio
né femmina (Gal 3,28 non ontologicamente né nell’economia dei sessi, ma per
quanto concerne la salvezza!), presero l’abitudine di portare una chioma corta,
assomigliando così ai maschi. Paolo sarcasticamente ingiunse di andare fino in
fondo: se i capelli non servivano come velatura del capo, si facessero rasare
del tutto (vv. 5s); ma così assomigliavano alla classe delle «rasate», le
prostitute di Corinto. Ciò era un disonore per il suo capo; per la sua persona e
per suo marito!
Si noti che gli unici criteri culturali sono gli ultimi due: uno
ecclesiale e l’altro sociale. Nel 4° principio Paolo non fece però una
distinzione fra chiese gentili (perlopiù greche, elleniste) e chiese giudaiche
(nella Giudea e nella diaspora), ma espresse in merito un’unica convenzione
oramai consolidata. Non si trattava del costume ebraico, altrimenti anche gli
uomini si sarebbero coperti il capo. Non si trattava neppure del costume
religioso greco, poiché esso era eterogeneo da culto a culto, a seconda del
dio di riferimento, che si aveva.
Da tutto ciò ci sembra che il criterio culturale sia alquanto precario e che
Paolo non lo usò, ma fece uso specialmente del criterio teologico. Stando
così le cose, esso non può venir meno col mutamento della cultura, di là se la
velatura del capo si riferisse a un «copricapo» o alla chioma naturale della
donna.
2. Capo della donna, suo servo?
Giustamente il mio interlocutore ha fatto intendere che il fine dell’autorità
è il servizio. Ed è anche vero che Gesù insegnò che l’autorità si mostra nel
servizio per gli altri. Questo è però solo una parte della medaglia; e Paolo non
usò qui questo argomento (cfr. Ef 5). Come l’autorità non deve diventare
autoritarismo e non deve servire per aggiogare l’altro, così la funzione di
un capo non si esaurisce in quella del servizio; ciò è evidente quando
bisogna prendere decisioni importanti. Egli ha una responsabilità rispetto
all’altro, ma anche un’autorità decisionale. Sebbene l’amore nel
matrimonio stemperi tutto, e un marito fa sempre bene ad ascoltare la moglie
(bisogni, punti di vista, desideri, ecc.), la famiglia non è una democrazia, in
cui si decide a maggioranza. Nel NT se alla moglie era chiesto di essere
sottomessa a suo marito, era evidente che un marito come capo aveva un una
potestà (decisionale, giuridica, ecc.) su di lei (Ef 5,22ss; Col 3,18; 1 Pt
3,1). Certamente c’è la controparte per i mariti, chiamati ad amare le loro
mogli (Ef 5,15ss; Col 3,19), ma ciò non sminuisce quanto chiesto alle mogli, lo
stempera soltanto.
3. La rilevanza per l’oggi di
1 Corinzi 11
Il mio interlocutore è partito da argomenti culturali, in parte illuminanti. Poi
conclude che il velo sia «un abbigliamento culturalmente superato».
Ammetto di essere rimasto meravigliato delle sue frettolose conclusioni. Egli
non discute se la «velatura del capo» sia il copricapo o la chioma
femminile (il termine «velo» ricorre di per sé in geco solo una volta, nel v.
15, ossia proprio dove viene detto che i capelli sono date alla donna al
posto di un velo!). Non tiene neppure presente gli argomenti teologici
di Paolo. Chiaramente sono giusti i principi, che egli evince per l’oggi (non
bellicosità delle donne, cura degli uomini per le loro mogli). Devo confessare
però che l’apostolo Paolo nel brano non ne fa uso.
Se, come ho mostrato, gli argomenti maggiori dell’apostolo non erano culturali,
ma teologici, allora non si può considerare la «velatura del capo» durante il
culto a Dio un
costume superato. Tutt’al più bisogna chiarire, come detto, se si
trattava della folta chioma femminile o di un copricapo. Ambedue le possibilità
sono aperte. Purtroppo le traduzioni italiane di 1 Corinzi 11 sono spesso
alquanto partigiane e non rendono il senso del testo greco (per la traduzione
letterale si veda in «Velo
fra assolutismo e banalizzazione»).
L’argomento culturale (vv. 5s), se unito alla spiegazione che la chioma
femminile le è data come «velo» naturale, è un forte indizio che qui Paolo
parlasse della chioma naturale della donna, in genere folta e lunga, come tale
velatura naturale del capo. Che si aderirà o meno a questo principio,
vediamo che la natura non è venuta meno negli ultimi due millenni e che a
ragione si deve anche oggi
distinguere una donna da un uomo, sia nell’abbigliamento, sia nella
chioma. Una donna, che prega o «proclama» (ma non insegna!) nella chiesa, deve
avere il capo velato, almeno da una chioma, che mostri la sua femminilità.
Similmente è per l’uomo, ma in modo diverso.
Per l’approfondimento si veda Nicola Martella, «La donna in 1 Corinzi 11»,
Generi e ruoli 2 (Punto°A°Croce, Roma 1996), pp. 9-27; si veda
qui anche «La donna e il culto», pp. 54-66.
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Volere velare per pregare? {Nicola Martella} (D)
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Velo_esegesi_oggi_GeR.htm
05-09-2009; Aggiornamento: 17-10-2012
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